mercoledì 2 novembre 2016

2 novembre - SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! NEWSLETTER N. 272 DEL 02/11/16



NEWSLETTER PER LA TUTELA DELLA SALUTE
E DELLA SICUREZZA DEI LAVORATORI
(a cura di Marco Spezia - sp-mail@libero.it)

INDICE

DISEGNO DI LEGGE SACCONI: UNA LEGGE PER FAVORIRE L’INSICUREZZA SUL LAVORO
1
CARENZE NEI LUOGHI DI LAVORO: DOMANDE E RISPOSTE (PRIMA PARTE)
4
CAPORALATO: APPROVATO DALLA CAMERA IN VIA DEFINTIVA IL DISEGNO DI LEGGE

7
MACCHINE MARCATE CE PRIVE DEI REQUISITI ESSENZIALI DI SICUREZZA
9
L’ESPOSIZIONE AD AGENTI CANCEROGENI E LA SORVEGLIANZA SANITARIA
12
IMPARARE DAGLI ERRORI: INFORTUNI MORTALI NELLA RIPARAZIONE DI TETTI
15
IMPARARE DAGLI ERRORI: LO SMANTELLAMENTO DI UN IMPIANTO DI GPL
18



DISEGNO DI LEGGE SACCONI: UNA LEGGE PER FAVORIRE L’INSICUREZZA SUL LAVORO

Da: Lavoro e Salute
Settembre 2016

Riparte l’attacco ai diritti sulla sicurezza sul lavoro: pronto UN Disegno di Legge che sottrae responsabilità agli imprenditori e ai manager pubblici.

L’onorevole Sacconi, per conto del Governo, ha presentato un Disegno di Legge denominato “disposizioni per il miglioramento sostanziale della salute e sicurezza dei lavoratori” in cui riscrive da capo la normativa esistente, nello specifico il D.Lgs. 81/08.

Questa proposta governativa ha questi dichiarati scopi:
-         eliminazione della valutazione dei rischi e della definizione delle misure di prevenzione e protezione e sostituzione con una “certificazione” redatta da un professionista (tecnico della prevenzione e/o medico del lavoro) pagato dal datore di lavoro;
-         deresponsabilizzazione del datore di lavoro in relazione a infortuni e a malattie professionali, se avrà dimostrato, tramite la “certificazione”, di avere adempiuto agli obblighi di legge;
-         sostanziale eliminazione dell’obbligo di vigilanza a capo del datore di lavoro e trasferimento della responsabilità a dirigenti, preposti e lavoratori stessi;
-         sgravi fiscali per le aziende “virtuose”, sempre sulla base della semplice “certificazione” del professionista;
-         riduzione delle sanzioni, con l’introduzione, in caso di violazioni, di “disposizioni esecutive”: le sanzioni ci saranno solo in caso di mancato rispetto di queste ultime.

Il Governo quindi lancia, tramite un ex sindacalista, l’ennesimo attacco alla condizione di chi lavora, con una motivazione tutta di parte, imprenditoriale e aziendale, che non nasconde affatto: la tutela della salute dei lavoratori è un costo da abbattere per le aziende.
Nulla di nuovo in questo sistema produttivo assassino basato sull’insicurezza sul lavoro che trova i suoi consapevoli complici in questo sistema politico con decenni di governi amici degli imprenditori, coperti e coccolati con miliardi di finanziamento statale.

Le morti e gli infortuni sul lavoro sono di nuovo in crescita, così come le malattie professionali. E’ scritto sul rapporto 2015 dell’INAIL: più di 600.000 denunce di infortuni, più di 1.200 quelle di morte (694 quelle accertate). Si tratta però di stime al ribasso, visto che non tengono conto né di lavoratori indipendenti (partite IVA, liberi professionisti...), né di lavoratori in nero che, va da sé, non sono assicurati INAIL (e quindi non risultano nei loro conti) e sono particolarmente presenti nei due settori a più alto rischio di incidente e con la quota più alta di vittime mortali: agricoltura ed edilizia.
Ogni giorno in Italia muoiono in media 3 lavoratori per infortuni sul luogo di lavoro. Il fenomeno dei morti sul lavoro e delle malattie professionali sconta un’informazione ufficiale che ne sottostima volutamente l’impatto sociale e umano.
Da gennaio a luglio 2016 sono 562 le persone che hanno perso la vita sul lavoro in Italia. Un numero drammatico, comunque per difetto, che si traduce in una tragica media di 77 vittime al mese, ossia 19 alla settimana. da luglio a oggi, inizi settembre, i dati ancora incompleti parlano di mortalità senza soluzione di continuità. Eppure, il Governo non ha nessuna vergogna a proporre la sua legge d’impunità per i responsabili.

Per dirla con Karl Marx: “al padrone non interessa nulla della vita e della salute dell’operaio, se non ci sono le leggi che glielo impongono”.
Ad oggi una legge che glielo imponga non c’è, la stessa “626 del 1994” e la modifica “81 del 2008” hanno lasciato ampi margini di inapplicabilità, tanto è vero che gli infortuni, i morti e le malattie professionali non hanno mai avuto una flessione. Se non si costruiscono rapporti di forza sociali e contrattuali fatta la legge tutto rimane sulla carta.
Ora questa riforma è stata appena presentata, parliamone con tra i colleghi sul posto di lavoro, chiediamo un impegno di discussione e mobilitazione ai RLS che a loro volta devono fare pressione sui sindacati perché non accettino compromessi al ribasso che, come storia insegna, con la mortale scelta della concertazione al posto della contrattazione, a rimetterci sono sempre i lavoratori, nelle fabbriche come nei Servizi Pubblici, ormai accomunati dalla stessa condizione di sfruttamento.
Quindi quando parliamo di ospedale, ufficio della Pubblica Amministrazione, intendiamo lo stesso stato di cose inerenti le condizioni di lavoro e di debolezza sindacale.

Proponiamo alla discussione con i lavoratori e i RLS i quattordici punti di programma di Medicina Democratica, per contrastare il Disegno di Legge del governo e per rendere il D.Lgs. 81/08 applicabile dal punto di vista sindacale e giuridico.
1 - Lotta a ogni forma di precariato sul lavoro e garanzia della autorganizzazione in fabbrica da parte dei lavoratori quali condizione preliminare per l’affermazione del diritto alla salute nei luoghi di lavoro (attuazione concreta dell’articolo 9 dello Statuto dei lavoratori e delle lavoratrici).
2 - Piena competenza dei compiti di vigilanza nei luoghi di lavoro (in tutti i luoghi di lavoro) da parte dei servizi di prevenzione delle ASL con relativo piano di assunzione di un numero di tecnici idoneo per estendere i controlli in tutte le aziende.
3 - Responsabilità e autonomia decisionale dei tecnici della prevenzione della ASL nella attuazione dei controlli programmati, in emergenza e su richiesta dei lavoratori e delle loro rappresentanze. Predominanza di interventi mirati e di qualità rispetto a criteri basati esclusivamente sul numero dei controlli.
4 - Inasprimento delle sanzioni a carico del datore di lavoro e dei dirigenti previste dalla normativa cogente per il mancato adempimento degli obblighi relativi a diritto del lavoro e a tutela della salute e sicurezza dei lavoratori.
5 - Ripristino del testo originale del D.Lgs. 81/08, eliminando le modifiche peggiorative per la salute e la sicurezza dei lavoratori introdotte dalle successive modifiche (D.Lgs. 106/09, Decreto “del fare”, Decreto “semplificazioni”, Decreti attuativi del Jobs Act). Contrasto ad ogni ulteriore modifica peggiorativa del D.Lgs. 81/08, come quella prospettata dal Disegno di Legge Sacconi già presentato in Senato che comporterebbe una drastica deresponsabilizzazione del datore di lavoro e la trasformazione della valutazione dei rischi e la definizione conseguente delle misure di prevenzione e protezione in una semplice “certificazione” da parte di un professionista pagato dall’azienda.
6 - Sostenere la ripresa della conoscenza e coscienza dei lavoratori con la promozione di sportelli salute e sicurezza autorganizzati e gestiti dalle realtà locali, in una rete di associazioni, anche a sostegno dei Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza, che spesso operano senza validi sostegni formativi.
7 - Creazione di una rete di assistenza tecnico/legale per i Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza, quando, a seguito della loro attività, subiscono discriminazioni da parte delle aziende.
8 - Previsione di pool di magistrati che si occupano di salute e sicurezza sul lavoro in ogni Procura, con relativa formazione specifica, creazione di una Procura Nazionale per la sicurezza sul lavoro.
9 - Ripresa e sviluppo del rapporto tra lavoratori e tecnici sia per quanto riguarda i rischi lavorativi che quelli ambientali, anche al fine della programmazione degli interventi per filiera produttiva o rischio e della formazione e sensibilizzazione dei lavoratori sulla conoscenza dei loro diritti rispetto a salute e sicurezza sul lavoro.
10 - Introduzione nel codice penale dei reati di omicidio sul lavoro (revisione dell’apparato sanzionatorio del D.Lgs 81/08) e di vessazioni sul lavoro (mobbing, discriminazione sul lavoro, violenza e stalking sul lavoro) anche creando osservatori su tali temi e sostenendo quelli già esistenti.
11 - Introduzione in maniera esplicita nel D.Lgs 81/08 dell’obbligo di effettuare la valutazione dei rischi e di definire le relative misure di prevenzione e protezione, anche tenendo conto dei dati epidemiologici della coorte di riferimento, responsabilizzando i Medici Competenti.
12 - Passaggio delle competenze sul riconoscimento delle malattie professionali dall’INAIL alle ASL, revisione delle tabelle sulle malattie professionali (introducendo le neoplasie mancanti, patologie come Multiple Chemical Sensitività e sindrome da elettrosensibilità, patologie psichiche e psicosomatiche lavoro correlate) e della tabella sulla quantificazione del danno biologico. Contrasto con l’atteggiamento di chiusura di enti (INAIL in primis) che non riconoscono o rendono impervio il riconoscimento di malattie professionali.
13 - Promozione della ricerca attiva dei tumori professionali da parte dei servizi di prevenzione delle ASL (utilizzo delle indagini epidemiologiche per ricerche sui comparti a rischio) sull’esempio del modello OCCAM.
14 - Piena attuazione ed estensione del regolamento europeo REACH per le sostanze di maggiore pericolosità (cancerogeni, mutageni e teratogeni) per arrivare al divieto di produzione e di introduzione nei paesi aderenti alla Unione Europea.



CARENZE NEI LUOGHI DI LAVORO: DOMANDE E RISPOSTE (PRIMA PARTE)

Da LavoroInSicurezza

LavoroInSicurezza.org è un’iniziativa di Rete Iside onlus per lavoratori e lavoratrici, delegati sindacali e cittadini.
Uno strumento di intervento per promuovere una nuova cultura della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro. Un progetto totalmente autofinanziato e indipendente.
Tra le varie sezioni del sito, vi è quella “Domande/Risposte” dedicata appunto a fornire risposte a domande poste da lavoratori sui temi della tutela della salute e sicurezza:
La Sezione è divisa nei seguenti settori:
RISCHI PER LA SALUTE PREVENZIONE-PROTEZIONE
-         esposizione ad agenti chimico-fisici;
-         rischi muscolo-scheletrici;
-         rischi nei lavori ai videoterminali;
-         rischi nella guida dei veicoli;
-         rischi da stress lavoro correlato.
RISCHI PER LA SICUREZZA PREVENZIONE-PROTEZIONE
-         attrezzature di lavoro (macchine, utensili elettrici, attrezzi manuali ecc);
-         apparecchiature per la movimentazione delle merci;
-         carenze nei luoghi di lavoro.
Nel presente numero della mia Newsletter riporto le Domande/Risposte relative al tema “Carenze nei luoghi di lavoro (prima parte)”.
Marco Spezia

* * * * *

DOMANDA
Sono un RLS in una azienda che esegue lavorazioni di rivestimento per interni (sottotetto, portiere ecc.) su autovetture.
Giorni fa mandai all’azienda una richiesta di ripristino dei beverini citando il D.Lgs. 81/08 (“nelle vicinanze deve essere messa a disposizione dei lavoratori acqua in quantità sufficiente”).
L’azienda ha risposto attraverso un comunicato che i beverini non garantirebbero le necessarie condizioni di igiene previste dalla normativa in materia e che sono stati installati dei distributori automatici.
Quindi per bere, in un ambiente di lavoro molto caldo, siamo costretti a sostenere ulteriori spese. Come posso risolvere questo problema.
Grazie.
RISPOSTA
Il punto dell’allegato IV del D.Lgs. 81/08, che citi, afferma con chiarezza l’obbligo del datore di lavoro rispetto alla dotazione di acqua potabile, che deve essere in quantità sufficiente rispetto alle necessità dei lavoratori, tenendo anche in considerazione le temperature. L’acqua potabile non può essere a carico del lavoratore.
Ti consigliamo di scrivere una lettera al datore di lavoro e al RSPP in cui, ai sensi del punto 1.13.1. dell’allegato IV del D.Lgs. 81/08, si richiede la dotazione di acqua potabile sufficiente ed adeguata, e si specifica che se entro pochi giorni le richieste non sono soddisfatte i lavoratori si rivolgeranno agli organi di vigilanza territoriali (ASL).

* * * * *

DOMANDA
Buongiorno sono una RSA della USB di un’azienda della grande distribuzione organizzata.
Avrei bisogno di avere un aiuto sul problema delle temperature in linea cassa, abbiamo molto caldo e accusiamo una mancanza di ventilazione, nonostante delle ventole che si trovano direzionate verso il suolo a circa un metro e mezzo dalla nostra postazione.
Tuttavia nei giorni di maggiore afflusso, le molte persone e il banco frigo che si trova alle nostre spalle rendono la situazione insopportabile. Abbiamo oltretutto delle divise sintetiche che non aiutano la traspirazione. Inoltre noi svolgiamo un lavoro un po’ diverso dal comune cassiere in quanto movimentiamo anche carichi leggeri.
Ho misurato con un termometro ambientale la temperatura nel mio posto di lavoro in cassa e risultava di 28 gradi e 50% di umidità. Ho segnalato il problema all’azienda che risponde che loro hanno il sistema di refrigerazione al massimo e che più di questo non possono fare, negli uffici ho misurato temperature di 25 gradi con lavoro sedentario.
Cosa possiamo fare? Ci sono delle temperature massime stabilite per legge? Tra i cassieri ci sono anche lavoratori delle categorie protette, quindi con già dei problemi di salute.
RISPOSTA
Salve, la questione è delicata e in queste giornate molto calde una non adeguata temperatura può avere ripercussioni sulla salute dei lavoratori. Quindi ti indichiamo il quadro normativo che definisce le questioni sulla temperatura dei locali di lavoro.
L’Allegato IV (punto 1.9.2.1.08 “Temperatura dei locali”) del D.Lgs. 81/08, non specifica i gradi ottimali della temperatura dei locali di lavoro, dice solo che “La temperatura nei locali di lavoro deve essere adeguata all’organismo umano durante il tempo di lavoro, tenuto conto dei metodi di lavoro applicati e degli sforzi fisici imposti ai lavoratori”.
In teoria, quindi, per definire la temperatura adeguata l’azienda deve fare un’indagine specifica nei propri locali.
Per avere dei riferimenti sul rapporto, in generale, tra tipologia di attività e temperatura adeguata bisogna fare riferimento alla norma tecnica ISO 7730, in base alla quale per un’attività sedentaria (ad esempio cassiera) la temperatura adeguata è di 21-23 gradi; quando la temperatura esterna è elevata, la temperatura interna deve essere corretta verso l’alto (di circa 2 gradi). Questa norma afferma, inoltre, che fino ad una temperatura interna pari a 24 gradi si dovrebbe in generale rinunciare al condizionamento dell’aria.
Considerato l’obbligo del datore di lavoro, per la tutela della salute dei lavoratori, di adeguarsi alle norme tecniche, ti consigliamo di scrivere una lettera, indirizzata al datore di lavoro (o al dirigente con delega sulla salute e sicurezza) e al RSPP, in cui si richiede di adottare le misure necessarie per adeguare la temperatura dei locali di lavoro in modo che oscilli tra i 23-25 gradi nel periodo estivo ai sensi dell’allegato 4 (punto 1.9.2.1.08) del D.Lgs. 81/08 e della norma ISO 7730. Inoltre puoi rivolgerti anche agli organi di vigilanza territoriali (ASL) per richiedere una valutazione del livello di rischio per la salute dei lavoratori.

* * * * *

DOMANDA
Buonasera sono un lavoratore manovratore, delegato sindacale e RLS, in una società di servizi.
Da qualche giorno è arrivato un container prefabbricato acquistato dalla società che sarà destinato a breve come locale spogliatoio e servizio docce e bagni per 34 unità lavorative.
Il container misura circa 4,5 metri di larghezza per 6 metri di lunghezza, è costituito da due moduli abitativi uno con docce e bagni e l’altro, attaccato al primo, con locale vestizione e spogliatoio. Considerando che nei circa 13,5 mq di locale spogliatoio e vestizione ci saranno 17 armadietti che ricoprono una superficie di 3,40 mq, rimarrebbero liberi solo 10 mq. Nel mio turno di notte siamo circa 16 lavoratori, considerando i riposi, ogni sera sono attive 12 unità lavorative. E’ secondo voi adeguato lo spazio destinato?
Questo container è stato posizionato in un un’area di percorrenza, movimentazione e stallo di autobus di 12 metri a metano, che sostano accesi a meno di 2 metri dal container. Inoltre essendo un’area di transito vedo il pericolo che una errata manovra comporterebbe la distruzione del container e di chi in quel momento è all’interno. Ci sono delle norme che stabiliscono la localizzazione di tali strutture?
RISPOSTA
Per quanto riguarda le dimensioni del container di servizio, gli allegati IV e XIII del D.Lgs. 81/08 non specificano i metri quadri minimi degli spogliatoi di locali di lavoro e container di cantiere; la definizione di questi aspetti è demandata agli uffici tecnici e ASL a livello territoriale. Noi purtroppo non abbiamo ancora i dati previsti nella tua regione, ma possiamo risponderti considerando per analogia i dati di altre regioni, in cui si stabilisce che gli spogliatoi devono avere 1,20 mq per addetto, con una superficie minima di 6 mq; nel caso vengano effettuati turni, la superficie per addetto per turno deve essere di 1,5 mq; devono essere comunque garantite dimensioni e spazi sufficienti all’uso. In sintesi, almeno secondo questi criteri, per i 16 lavoratori del turno di notte le dimensioni del container dovrebbero essere almeno di 24 mq (1,5 mq x 16).
Per quanto riguarda i requisiti di sicurezza nella collocazione del container, dalla tua descrizione si evidenziano rischi abbastanza seri; i container-spogliatoi non possono assolutamente essere collocati nell’area di manovra di veicoli, con rischio di urti ecc.
Questo aspetto dovrebbe essere stato analizzato nel Documento Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenza (DUVRI). Ti consigliamo di fare una richiesta scritta, al datore di lavoro e al RSPP, in cui chiedi copia del DUVRI, segnali il problema e chiedi l’adozione immediata di misure per eliminare i rischi di sicurezza per i lavoratori. Se non ottieni risposte in tempi rapidi ti conviene rivolgerti agli organi di vigilanza territoriali.

* * * * *

DOMANDA
Buongiorno, lavoro in un comune nell’area tecnico manutentiva.
Il nostro “magazzino”, cioè il punto di partenza e arrivo di tutti i lavori giornalieri, a volte anche posto di lavoro in quanto si trova un officina meccanica, rimessa per tutti gli automezzi, spogliatoio e bagni ecc. non dispone di acqua potabile: l’unica acqua che disponiamo è quella di un pozzo li vicino che è stata convogliata nelle tubature dei bagni, (naturalmente specialmente d’estate l’acqua puzza e arriva mista a terra).
Abbiamo più volte fatto presente al nostro ingegnere e al responsabile della sicurezza il problema ma non abbiamo risolto e non abbiamo risposte.
RISPOSTA
L’assenza di acqua potabile in un luogo di lavoro è molto grave.
L’allegato IV del D.Lgs. 81/08 al punto 1.13.1 dice esplicitamente: “Nei luoghi di lavoro o nelle loro immediate vicinanze deve essere messa a disposizione dei lavoratori acqua in quantità sufficiente, tanto per uso potabile quanto per lavarsi. Per la provvista, la conservazione e la distribuzione dell’acqua devono osservarsi le norme igieniche atte ad evitarne l’inquinamento e ad impedire la diffusione di malattie”.
Ti consigliamo, quindi, di scrivere una lettera al dirigente (con delega su salute e sicurezza lavoro) e al RSPP, in cui chiedi di dotare immediatamente i locali, in quanto luogo di lavoro, di acqua potabile (ai sensi degli articoli 62 e 63 e dell’allegato IV (punto 1.13.1) del D.Lgs. 81/08).

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DOMANDA
Buongiorno, lavoro in un ufficio pubblico dove non sempre il sistema di condizionamento dell’aria funziona.
Abbiamo rilevato temperature interne che variano tra i 27 e i 30 gradi.
In termini di sicurezza o di stress termico esiste un limite massimo delle temperature oltre il quale non si dovrebbe lavorare?
Ringrazio anticipatamente e auguro buon lavoro.
RISPOSTA
L’Allegato IV (punto 1.9.2.1.08 “Temperatura dei locali”) del D.Lgs. 81/08, non specifica i gradi ottimali della temperatura dei locali di lavoro, dice solo che “La temperatura nei locali di lavoro deve essere adeguata all’organismo umano durante il tempo di lavoro, tenuto conto dei metodi di lavoro applicati e degli sforzi fisici imposti ai lavoratori”. In teoria, quindi, per definire la temperatura adeguata l’azienda deve fare un’indagine specifica nei propri locali.
Per avere dei riferimenti sul rapporto, in generale, tra tipologia di attività e temperatura adeguata bisogna fare riferimento alla norma tecnica ISO 7730. Secondo questa norma per un’attività sedentaria (di tipo intellettuale) la temperatura adeguata è di 21-23 gradi; quando la temperatura esterna è elevata, la temperatura interna deve essere corretta verso l’alto (di circa 2 gradi). Questa norma afferma, inoltre, che: “fino ad una temperatura interna pari a 24 gradi si dovrebbe in generale rinunciare al condizionamento dell’aria”.
In sintesi, quindi, considerato l’obbligo del datore di lavoro, per la tutela della salute dei lavoratori, di adeguarsi alle norme tecniche, si può scrivere una lettera (indirizzata al datore di lavoro o dirigente con delega sulla salute e sicurezza e al RSPP) in cui si specifica che: “ai sensi dell’allegato IV (punto 1.9.2.1.08) del D.Lgs. 81/08 e della norma ISO 7730, si richiede di adottare le misure necessarie per adeguare la temperatura dei locali di lavoro i modo che oscilli tra i 23-25 gradi (nel periodo estivo)”.



CAPORALATO: APPROVATO DALLA CAMERA IN VIA DEFINITIVA IL DISEGNO DI LEGGE

Da Studio Cataldi
20 ottobre 2016
di Marina Crisafi

CAPORALATO: IL DDL E’ LEGGE: 6 ANNI DI CARCERE PER CHI SFRUTTA I LAVORATORI
TUTTE LE NOVITA’ E IL TESTO DELLA LEGGE DA SCARICARE

E' arrivato nella serata di ieri il via libera definitivo alla nuova Legge contro il caporalato, fortemente voluta dal Ministro delle politiche agricole Maurizio Martina e attesa da tempo.
La Camera ha dato l'OK (con 190 voti a favore, 32 astenuti e nessun contrario) al testo, nella veste approvata dal Senato lo scorso agosto, che mira a garantire una maggiore efficacia all'azione di contrasto del caporalato, introducendo significative modifiche all'attuale disciplina e inasprendo le pene (con carcere fino a 6 anni e confisca dei beni) per chi sfrutta i lavoratori dell'agricoltura.
Il fenomeno del caporalato, ossia "l'intermediazione illegale e lo sfruttamento lavorativo, prevalentemente in agricoltura" coinvolge, oggi, secondo le stime, circa 400.000 lavoratori in Italia, sia italiani che stranieri, ed è diffuso in tutte le aree del Paese.
Con questa Legge, attesa da almeno cinque anni, ora ci sono, secondo il Ministro Martina gli "strumenti utili per continuare una battaglia che deve essere quotidiana, perché sulla dignità delle persone non si tratta".
Ecco le novità in pillole.

IL NUOVO REATO DI CAPORALATO
La nuova Legge, che si compone di 12 articoli, riscrive innanzitutto il reato di caporalato introducendo la sanzionabilità anche del datore di lavoro, l'applicazione di un'attenuante nel caso di collaborazione con le autorità; l'arresto obbligatorio in flagranza di reato; il rafforzamento dell'istituto della confisca e l'adozione di misure cautelari e il potenziamento della "Rete del lavoro agricolo di qualità", in funzione di strumento di controllo e prevenzione del lavoro nero in agricoltura.

LE SANZIONI
In particolare, il provvedimento riformula il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, già inserito all'articolo 603-bis del Codice Penale, prevedendo la pena della reclusione da uno a sei anni per l'intermediario e per il datore di lavoro e la multa da 500 a 1.000 euro per ogni lavoratore reclutato, approfittando del loro stato di bisogno.
Viene sancito, inoltre, che se i fatti sono commessi mediante violenza o minaccia, la pena della reclusione, rispetto alla fattispecie-base, aumenta da cinque a otto anni e la multa da 1.000 a 2.000 euro per ogni lavoratore reclutato; è previsto l'arresto in flagranza.
Le nuove regole individuano quale indice di sfruttamento anche la corresponsione reiterata di "retribuzioni palesemente difformi dai contratti collettivi territoriali" e la violazione delle norme sugli orari di lavoro di lavoro e sui periodi di riposo".
Previste attenuanti per si adopera a evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori o per assicurare le prove dei reati o l'individuazione degli altri responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite.

LA CONFISCA DEI BENI
La nuova Legge, inoltre, sancisce che, come avviene con le organizzazioni criminali mafiose, al reato si accompagni sempre la confisca obbligatoria dei beni, del denaro o delle altre utilità di cui il condannato risulti titolare (o abbia la disponibilità a qualsiasi titolo) e non possa giustificarne la provenienza.


LA TUTELA DELLE VITTIME
Il provvedimento inoltre estende le finalità del Fondo Anti-tratta anche alle vittime del reato di caporalato, prevedendo l'assegnazione dei proventi delle confische ordinate a seguito di sentenza di condanna o di patteggiamento per il delitto ai sensi dell’ articolo 603-bis del Codice Penale.
La modifica comporta la destinazione delle risorse del Fondo anche all'indennizzo delle vittime del reato di caporalato.
L'ultima parte del provvedimenti introduce, infine, diverse misure di sostegno e di tutela del lavoro agricolo.

Il Disegno di Legge, come approvato dalla Camera è scaricabile all’indirizzo:



MACCHINE MARCATE CE PRIVE DEI REQUISITI ESSENZIALI DI SICUREZZA

Da: PuntoSicuro
17 ottobre 2016
di Gerardo Porreca

Il datore di lavoro è responsabile delle lesioni al lavoratore se ha consentito l’utilizzo di una macchina che pur conforme alla normativa CE per come è stata progettata e assemblata lo abbia esposto al rischio che ha portato all’infortunio.

Torna la Corte di Cassazione ad occuparsi della sicurezza delle macchine che, benché dotate per come progettate e assemblate della regolare marcatura CE garantita dal costruttore, abbiano provocato l’infortunio di un lavoratore che lavorava presso le stesse legato alla carenza delle misure previste dalle norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro e fornisce in questa occasione indirizzi che, per la verità, già si riscontrano in precedenti espressioni della stessa Corte.

Ha in sostanza affermato la suprema Corte in questa sentenza che pure se l’evento dannoso sia stato provocato dall’inosservanza alle cautele antinfortunistiche in fase di progettazione e di fabbricazione della macchina non è comunque esclusa la responsabilità del datore di lavoro sul quale in ogni caso grava l’obbligo di eliminare le fonti di pericolo per i lavoratori dipendenti che la debbono utilizzare e di adottare nell’impresa i più moderni strumenti che la tecnica offre per garantire la sicurezza dei lavoratori. La dotazione della marcatura CE, ha infatti ribadito la suprema Corte, non dà ingresso all’esonero alle norme generali del codice penale come risulta anche dalla lettura delle norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro.

La Corte di Appello ha confermata la sentenza del Tribunale appellata dall’amministratrice unica di una società che era stata tratta a giudizio e condannata per rispondere, nella sua qualità di datore di lavoro, del reato di cui all’articolo 590 commi 1, 2 e 3 del Codice Penale, per aver cagionato lesioni personali gravissime a un dipendente della società medesima per colpa consistita nella violazione di norme antinfortunistiche. Il dipendente, quale addetto al controllo e alla pulizia dell’impianto di trattamento dei rifiuti installato sul luogo di lavoro, per rimuovere un pezzo di metallo incastrato tra i cingoli di uno dei nastri trasportatori, aveva infilato il braccio destro tra le parti in movimento della macchina, non munite della protezione prevista negli allegati all’articolo 71 del D.P.R. 547/55 e all’articolo 70 del D.Lgs. 81/08 per evitare il pericolo che venissero afferrate e trascinate parti del corpo degli operatori, per cui il braccio del lavoratore era stato agganciato dal nastro trasportatore e schiacciato dagli ingranaggi perdendo gran parte della originaria funzionalità.
Avverso tale sentenza l’amministratrice ha fatto ricorso alla Corte di Cassazione a mezzo del difensore di fiducia deducendo un vizio di motivazione e travisamento della prova.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso e ha pertanto confermata la condanna dell’imputata. La stessa Corte, contrariamente all’assunto della ricorrente, ha ritenuta logica e congrua la sentenza impugnata per avere espresso il proprio convincimento in modo logico ed argomentato, riscontrato da argomentazioni fattuali compatibili logicamente con la soluzione adottata.

Quanto al merito delle singole censure, la suprema Corte ha fatto osservare che, la circostanza che il costruttore della macchina sia stato assolto, non essendo stato possibile stabilire se la macchina al momento della consegna alla società fosse dotata o meno dell’obbligatorio riparo fisso destinato ad impedire l’accesso degli arti e del corpo dei lavoratori è stata ininfluente sulla posizione della ricorrente e ciò anche accedendo alla tesi propugnata in ricorso che il nastro in questione fosse “ab origine” privo della protezione in questione. Come precisato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, infatti, ha precisato la Sezione IV, “il datore di lavoro è responsabile delle lesioni patite dall’operaio, allorquando abbia consentito l’utilizzo di una macchina, la quale, pur astrattamente conforme alla normativa CE, per come assemblata e in pratica utilizzata abbia esposto i lavoratori a rischi del tipo di quello in concreto realizzatosi (vedi Sentenza della Corte di Cassazione Sezione IV n. 49670 del 23/10/14). I marchi di conformità CE limitano infatti la loro efficacia (articoli 6 e 36 del D.Lgs. 626/94) a rendere lecita la produzione, il commercio e la concessione in uso delle macchine che, caratterizzate dal marchio, risultano essere rispondenti ai requisiti essenziali di sicurezza previsti nelle disposizioni legislative e regolamentari vigenti, ma la dotazione di tali marchi non da ingresso ad esonero dalle norme generali del codice penale come è specificamente fatto chiaro anche dal testo degli articoli 35, comma 3, lettera b) e 37 del D.Lgs. 626/94 (vigente al momento dell’infortunio)”

La responsabilità del costruttore peraltro, ha tenuto a precisare la Corte di Cassazione, nel caso in cui l’evento dannoso sia provocato dall’inosservanza delle cautele antinfortunistiche nella progettazione e nella fabbricazione di una macchina, non esclude la responsabilità del datore di lavoro, sul quale grava l’obbligo di eliminare le fonti di pericolo per i lavoratori dipendenti che debbano utilizzare la predetta macchina e di adottare nell’impresa tutti i più moderni strumenti che la tecnologia offre per garantire la sicurezza dei lavoratori, potendosi fare eccezione a detta regola nella sola ipotesi in cui l’accertamento di un elemento di pericolo nella macchina o di un suo vizio di progettazione o di costruzione sia reso impossibile per le speciali caratteristiche della macchina stessa o del vizio che abbiano impedito di apprezzarne la sussistenza con l’ordinaria diligenza.

Nel caso in esame, ha sostenuto la Sezione IV, come sottolineato dai giudici di merito, la mancanza dell’elemento di protezione era particolarmente evidente, e per molti versi, vistosa, tale, comunque, da non poter sfuggire, senza incorrere in grossolana negligenza. E peraltro che ciò non fosse in concreto sfuggito nel caso particolare è emerso chiaramente ove si consideri che erano state fornite ai lavoratori espresse indicazioni su come intervenire sulla macchina in questione e sulla necessità di procedere prima al fermo della macchina stessa e quindi non vi era un vizio occulto, insidioso o, comunque, non percepibile.

Quanto al presunto contributo colposo della vittima la suprema ha fatto osservare che il rispetto delle norme prevenzionali ha lo scopo di prevenire e ridurre al minimo il rischio di incidenti che è fisiologico possano avere alla base l’errore dell’operatore, generato dalla reiterazione, dalle fisiologiche cadute d’attenzione nell’arco di tutto il tempo lavorativo ed anche, talvolta da vere e proprie distrazioni o imprudenze. E’ proprio al fine di scongiurare degli infortuni che si possono evitare rispettando le norme che determinati soggetti sono chiamati al ruolo di garanzia in favore degli operatori esposti al rischio infortunistico, senza che i primi possano pretendere esonero da responsabilità ove si accerti una condotta inadeguata del lavoratore, salvo l’abnormità.

Nel caso posto all’esame della Corte di Cassazione, invece, l’infortunato, come anche sottolineato dalla Corte Territoriale, si era limitato a compiere un gesto istintivo (liberare il macchinario da un frammento di alluminio) del tutto coerente con le sue mansioni. In ogni caso, ha soggiunto la Sezione IV, non può assumere alcun apprezzabile rilievo penalistico la manovra o la condotta del lavoratore che in qualche misura abbia contribuito all’infortunio, trattandosi di circostanza tipica e fisiologica, correlata, come sopra detto, alla ripetizione del gesto, allo stress lavorativo e alle complessive condizioni psicofisiche del soggetto, rientrante nel rischio d’impresa e in quello prevenzionale, posto a base delle norme antinfortunistiche.

La Suprema Corte ha ritenuto a tal punto opportuno richiamare una recentissima sentenza della Corte medesima, la n. 8883 del 10/02/16, con la quale la stessa ha precisato come in tema di infortuni sul lavoro, il datore di lavoro che, dopo avere effettuato una valutazione preventiva del rischio connesso allo svolgimento di una determinata attività, ha fornito al lavoratore i relativi dispositivi di sicurezza e ha adempiuto a tutte le obbligazioni proprie della sua posizione di garanzia, non risponde delle lesioni personali derivate da una condotta esorbitante e imprevedibilmente colposa del lavoratore, mettendo in evidenza che il sistema della normativa antinfortunistica si è evoluto passando da un modello “iperprotettivo”, interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro, quale soggetto garante investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori, a un modello “collaborativo” in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori. Nel caso di quella sentenza però, conclude la Corte di Cassazione, è stato comunque provato che il datore di lavoro aveva fornito tutti i mezzi idonei alla prevenzione e adempiuto a tutte le obbligazioni proprie della sua posizione di garanzia, il che è stato escluso nel caso in esame.

La Sentenza della Corte di Cassazione Penale Sezione IV n. 40702 del 29/09/16 “Il datore di lavoro è responsabile delle lesioni patite da un lavoratore se ha consentito l’utilizzo di una macchina che pur conforme alla normativa CE per come è stata progettata e assemblata lo abbia esposto al rischio che ha portato all’infortunio” è scaricabile all’indirizzo:

La Sentenza della Corte di Cassazione Penale Sezione IV n. 8883 del 03/03/19 “Caduta dal tetto del capannone. Assoluzione di un datore di lavoro e di un RSPP: tutte le cautele possibili da assumersi ex ante erano state assunte” è scaricabile all’indirizzo:



L’ESPOSIZIONE AD AGENTI CANCEROGENI E LA SORVEGLIANZA SANITARIA

Da: PuntoSicuro
19 ottobre 2016
di Tiziano Menduto

Un nuovo documento, elaborato da diversi operatori dei Servizi ASL, affronta il tema dell’esposizione agli agenti cancerogeni, della normativa vigente e della sorveglianza sanitaria. Quando intraprenderla e per quanto tempo protrarla?

Qualsiasi sistema sanitario che progetti e realizzi programmi di sorveglianza sanitaria non può limitarsi a obiettivi di natura conoscitiva generale, ma deve avere lo scopo di fare qualcosa di buono per i gruppi di popolazione in studio. E l’applicazione dell’articolo 242 del D.Lgs. 81/08 per tutti i cancerogeni escluso l’amianto e dell’articolo 259 del medesimo Decreto per l’amianto vuol dire, in primo luogo, progettare e realizzare dei programmi di sorveglianza sanitaria ad hoc che consentano la diagnosi precoce utile e il trattamento precoce utile di un numero adeguato di casi incidenti di tumore.

A sottolinearlo, parlando di sorveglianza sanitaria relativa ai cancerogeni occupazionali, è un recente documento, elaborato e concluso nel mese di settembre 2016, da un nutrito gruppo di operatori dei Servizi ASL prendendo spunto dai documenti e dai confronti seguiti ad alcuni seminari e workshop che si sono tenuti ad Ancona nel mese di giugno, organizzati dalla Società Nazionale degli Operatori della Prevenzione (SNOP) insieme al’’Azienda Sanitaria Unica Regionale (ASUR) Marche Area Vasta 3.


Il documento (dal titolo “Applicazione degli articoli 236, 242, 243 e 244 del D.Lgs. 81/08. Valutazione dell’esposizione ad agenti cancerogeni e del rischio che ne consegue. Indicazioni per la classificazione dei lavoratori come professionalmente esposti ad agenti cancerogeni, la loro conseguente registrazione e lo svolgimento di programmi di sorveglianza sanitaria ad hoc. La questione degli ex-esposti ad agenti cancerogeni in ambiente di lavoro”) contiene varie proposte sia per modifiche evolutive di alcuni articoli del Titolo IX (Sostanze pericolose) del D.Lgs. 81/08, sia per un’applicazione sostenibile ed efficace dell’attuale testo di legge. Una prospettiva di intervento di ampio respiro e particolare rilievo che (come ricordato da SNOP) è presentata in un momento storico in cui parrebbero farsi avanti solo ipotesi di revisioni normative “al ribasso” delle già (nella pratica) insufficienti garanzie di tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori nel nostro Paese.

Il documento riporta inizialmente la “storia” dell’attenzione al tema degli agenti cancerogeni occupazionali, mostrando come sia cambiata nel tempo la situazione, e si sofferma sulla “quantità” degli esposti agli agenti cancerogeni e sulla normativa vigente in Italia.

Riguardo alla normativa sono indicate alcune difficoltà oggettive di interpretazione e applicazione, soprattutto per le tre situazioni indicate:
-         l’esistenza di un’esposizione ad agenti cancerogeni non è immediatamente identificabile, ad esempio perché un cancerogeno chimico non è presente fin dall’inizio tra le materie prime e/o gli ausiliari di produzione in uso, ma viene a formarsi ex novo nel corso del processo produttivo;
-         l’esistenza di un’esposizione ad agenti cancerogeni è nota, ma si tratta di agenti ubiquitari e presenti in ambiente di lavoro a livelli di intensità non particolarmente elevati, tali per cui non è immediatamente chiaro se si stia trattando, in realtà, di niente più che della situazione della popolazione generale non professionalmente esposta;
-         l’esistenza di un’esposizione ad agenti cancerogeni è nota e questa si mostra, per tipologia degli agenti e livello di intensità dell’esposizione, di natura indiscutibilmente professionale, ma l’esposizione medesima è “sporadica” e di “debole” intensità.

E manca tuttora, infine, una chiarificazione inequivocabile del “perché?” complessivo della registrazione di esposizioni ed esposti e dell’attivazione di programmi di sorveglianza sanitaria ad hoc, a evitare che azioni impegnative, potenzialmente di grande rilevanza prevenzionistica ma anche, in potenza, tutt’altro che scevre di effetti collaterali negativi (soprattutto in un’epoca in cui molti spingono per una restrizione del welfare pubblico a tutto favore delle assicurazioni sanitarie private), si avviassero in maniera caotica e afinalistica, come meri adempimenti di legge da realizzare al solo scopo di mettersi al riparo da future contestazioni.

Il documento con lo scopo di sollecitare un’adeguata attenzione istituzionale e scientifica al problema “cancerogeni occupazionali e tumori professionali” e di fornire un contributo tecnico per l’individuazione di soluzioni ai problemi tuttora aperti, ha cercato di sviluppare tre argomenti che sono rimasti negli anni particolarmente critici:
-         chi considerare professionalmente esposto ad agenti cancerogeni;
-         come articolare un programma di sorveglianza sanitaria ad hoc, attivato ai sensi dell’articolo 242 del D.Lgs. 81/08;
-         cosa deve conseguire alla registrazione dell’esposizione occupazionale a cancerogeni e all’istituzione di un’apposita cartella sanitaria e di rischio in applicazione dell’articolo 243 del D.Lgs 81/08.

Ci soffermiamo brevemente sul tema della sorveglianza sanitaria.

Ad esempio gli autori ricordano che va definito da quando intraprendere la sorveglianza sanitaria e per quanto tempo protrarla.
Infatti i tumori hanno tempi di induzione-latenza diversi ma comunque dell’ordine degli anni (da alcuni anni, come per una parte delle leucemie, a diversi decenni, come per mesoteliomi e carcinomi naso-sinusali). Nessun tumore di origine professionale insorgerà quindi nei “primi” anni dopo l’inizio dell’esposizione (a fini operativi, il termine “primi” va espressamente definito per ciascun tipo di neoplasia). Insomma va definito, per ciascun tipo di neoplasia da monitorare, un lag temporale prima che sia trascorso il quale sarà inutile far entrare un soggetto in un programma di sorveglianza sanitaria ad hoc, peraltro non eccessivamente lungo, a evitare che sfuggano proprio le alterazioni precoci di cui si va alla ricerca. Inoltre dobbiamo attenderci che solo una quota dei tumori professionali insorgerà in soggetti ancora esposti e che molti di essi si manifesteranno invece in soggetti non più esposti (o perché continuano a lavorare, ma l’esposizione è cessata, o perché proprio non lavorano più). Una volta entrato in un programma di sorveglianza sanitaria ad hoc, va previsto che un soggetto vi rimanga per anni, anche dopo il termine dell’esposizione.

Ma, d’altra parte, è anche ragionevole aspettarsi che l’effetto cancerogeno dell’esposizione, pur protraendosi a lungo, tenderà a scemare con il trascorrere del tempo dalla cessazione dell’esposizione medesima, per cui il gettito di nuovi casi di cancro alla cui causazione essa ha contributo tenderà a diminuire. Tuttavia questa diminuzione dell’effetto dell’esposizione ha tempistiche diverse a seconda dei tipi di agente e di cancro: va quindi definito, caso per caso, per quanto tempo sia utile protrarre la sorveglianza sanitaria ad hoc dopo la cessazione dell’esposizione, tenuto conto del numero delle persone da tenere sotto osservazione e del numero di casi di cancro che ci si aspetta di poter individuare precocemente tra di esse.

Il documento si sofferma poi sul programma di screening oncologico e le condizioni di sostenibilità, sull’importanza di fornire informazioni e counselling adeguati e su altri molti aspetti ed elementi utili alla sorveglianza sanitaria.

Concludiamo ricordando quanto indicato dagli autori riguardo ai soggetti che abbiano sperimentato un’esposizione a cancerogeni significativa, ma limitata nel tempo: come devono essere considerati e, soprattutto, cosa deve essere loro garantito?
Si indica che, a tal proposito, è di supporto l’articolato del D.Lgs. 81/08 specificamente dedicato all’amianto, la cui logica si propone di estendere anche a tutti gli altri agenti cancerogeni.
Il documento ne riporta uno stralcio: “I lavoratori che durante la loro attività sono stati iscritti anche una sola volta nel registro degli esposti di cui all’articolo 243, comma 1, sono sottoposti a una visita medica all’atto della cessazione del rapporto di lavoro; in tale occasione il medico competente deve fornire al lavoratore le indicazioni relative alle prescrizioni mediche da osservare e all’opportunità di sottoporsi a successivi accertamenti sanitari”. Si tratta di una parte dell’articolo 259 (Sorveglianza sanitaria) che si applica ai lavoratori che sono o sono stati esposti all’amianto. Quindi l’iscrizione nel registro degli esposti configura una condizione che, una volta instaurata, non si mantiene in automatico “vita natural-durante”, ma viene a cessare una volta che sia cessata l’esposizione (anche se dell’esposizione pregressa dovrà rimanere traccia documentale stabile); ed è inoltre prevista espressamente un’attività di informazione mirata su ciò che gli esposti e gli ex-esposti dovrebbero fare (e poter fare) una volta cessato il rapporto di lavoro.

Il documento “Applicazione degli articoli 236, 242, 243 e 244 del D.Lgs. 81/08. Valutazione dell’esposizione ad agenti cancerogeni e del rischio che ne consegue. Indicazioni per la classificazione dei lavoratori come professionalmente esposti ad agenti cancerogeni, la loro conseguente registrazione e lo svolgimento di programmi di sorveglianza sanitaria ad hoc. La questione degli ex-esposti ad agenti cancerogeni in ambiente di lavoro” del 6 settembre 2016 è scaricabile all’indirizzo:



IMPARARE DAGLI ERRORI: INFORTUNI MORTALI NELLA RIPARAZIONE DI TETTI

Da: PuntoSicuro
20 ottobre 2016
di Tiziano Menduto

Esempi di infortuni tratti da SUVA: un infortunio grave avvenuto durante attività di riparazione di un tetto di un capannone. La dinamica dell’incidente, le riflessioni sulle cause, le superfici non resistenti alla rottura e le regole di prevenzione.

In queste ultime settimane “Imparare dagli errori”, la rubrica di PuntoSicuro dedicata al racconto e all’analisi degli infortuni lavorativi, si è soffermata sulle conseguenze dell’ assenza di DPI, come il casco o i guanti, o di cattive prassi nelle attività di saldatura.
Tuttavia con questa rubrica cerchiamo anche di mantenere alta l’attenzione su una delle principali cause in Italia degli infortuni mortali, le cadute dall’alto, con particolare riferimento al comparto delle costruzioni.

Per farlo ci dedichiamo oggi alla presentazione di una scheda di un infortunio, avvenuto in territorio elvetico, pubblicata sul sito di SUVA (Istituto svizzero per l’assicurazione e la prevenzione degli infortuni) e correlata alla campagna “Visione 250 vite”.

Una scheda sui rischi nelle attività su coperture, già affrontati in altre puntate della rubrica, ma che in questo caso fa riferimento specifico all’attività professionale di lavoro, particolarmente diffusa in territorio elvetico, del copritetto.
Ricordiamo che il copritetto generalmente si occupa della copertura di tetti mediante tegole di laterizio, di ardesia o di altre rocce, di legno, di metallo o di fibra di cemento, ecc. E si occupa spesso anche di altri aspetti relativi al tetto, ad esempio l’isolazione fonica e termica.

La scheda, dal titolo “Riparazione fatale per un copritetto”, racconta di un infortunio mortale avvenuto per una caduta attraverso il tetto di un capannone.
Un lavoratore, copritetto qualificato, deve riparare, assieme a un collega, il tetto di un capannone. I due operai vogliono lavorare sulla copertura (realizzata in lastre ondulate di fibrocemento) con un dispositivo anticaduta a fune. Riescono a fissare la fune di sicurezza solo a un camino sul colmo del tetto.
Si scopre però che la fune è troppo corta e che non arriva fino al punto in cui bisogna eseguire la riparazione. Per questo motivo, alla fine decidono di lavorare senza alcun dispositivo di protezione.
I due operai appoggiano le tavole da ponte sul tetto che non è resistente alla rottura. Rimuovono i pannelli difettosi e tolgono la lana di roccia dai pannelli isolanti sottostanti. All’improvviso il copritetto perde l’equilibrio e mette il piede su un pannello isolante che cede.
Il copritetto fa un volo di 13 m e finisce sul pavimento del capannone.

La scheda di SUVA indica che l’incidente è avvenuto perchè:
-         il datore di lavoro del copritetto non ha chiarito quali misure di protezione erano necessarie per svolgere quella riparazione: per questo motivo i suoi dipendenti non avevano con sé gli strumenti giusti per la loro messa in sicurezza (il datore di lavoro è responsabile della sicurezza dei propri dipendenti e deve fare in modo che per ogni incarico di lavoro siano adottate le necessarie misure di sicurezza);
-         non avendo a disposizione il materiale giusto, i due operai decidono di non usare i dispositivi anticaduta: avrebbero dovuto dire STOP e non svolgere i lavori senza i dispositivi anticaduta;
-         il copritetto mette il piede accidentalmente su un pannello isolante non resistente e non essendo fissato a una fune di sicurezza, sfonda la copertura del capannone: mettere un piede su un pannello ondulato avrebbe avuto le stesse conseguenze; i tetti con superfici non resistenti alla rottura rappresentano sempre un pericolo mortale e pertanto non andrebbero più realizzati.

Dunque, riepilogando, questi sono i principali fattori causali dell’infortunio:
-         il titolare della ditta di copertura non chiarisce quali sono le misure di sicurezza necessarie per quell’incarico;
-         i copritetto non dispongono di materiale adeguato per la loro messa in sicurezza e rinunciano del tutto a usare i DPI anticaduta;
-         il tetto di per sé non è resistente alla rottura e non deve essere percorso senza adottare ulteriori misure di sicurezza: la lana di roccia non è un materiale di per sé resistente e quindi cede nel momento in cui un lavoratore ci cammina sopra per sbaglio.

Per favorire la prevenzione degli infortuni correlati all’attività sulle coperture degli edifici, la scheda propone degli approfondimenti tratti dal documento SUVA “Nove regole vitali per chi lavora su tetti e facciate”.
Ricordiamo brevemente le regole:
-         Regola 1: Realizzare accessi sicuri
-         Regola 2: Mettere in sicurezza le zone con rischio caduta
-         Regola 3: Impedire le cadute verso l’interno dell’edificio
-         Regola 4: Mettere in sicurezza le aperture nel tetto
-         Regola 5: Garantire superfici di copertura resistenti alla rottura (regola rilevante per il caso in questione)
-         Regola 6: Lavorare sulle facciate solo con attrezzature sicure
-         Regola 7: Ispezionare i ponteggi
-         Regola 8: Utilizzare correttamente le imbracature anticaduta (regola rilevante per il caso in questione)
-         Regola 9: Proteggersi dalle polveri di amianto

Ci soffermiamo sulla Regola 5 (già segnalata in altre puntate di “Imparare dagli errori”) che ricorda che è necessario lavorare solo su superfici di copertura resistenti alla rottura. La scheda, che fa riferimento ad un Ordinanza elvetica sui lavori di costruzione, indica che è vietato lavorare su superfici di copertura non resistenti alla rottura. Si può lavorare solo se è stato accertato con sicurezza che si tratta di coperture resistenti alla rottura. Se la copertura non è totalmente resistente alla rottura, è necessario adottare adeguate misure di sicurezza.
In particolare (indica la scheda elvetica) i seguenti materiali non sono considerati resistenti alla rottura:
-         lastre ondulate in fibrocemento;
-         lucernari “Shed” o a pannelli in materiale plastico (ad esempio policarbonato);
-         lucernari a cupola in materiale plastico (ad esempio policarbonato);
-         pannelli in fibra di legno e pannelli in legno-cemento usati spesso nella sottocopertura del tetto.

Si ricordano, infine, anche le misure antisfondamento che possono essere applicate.
Ad esempio:
-         montaggio di reti di sicurezza al di sotto della copertura;
-         realizzare un piano di calpestio portante sulla superficie del tetto con una protezione laterale totale;
-         adottare passerelle portanti con parapetto su entrambi i lati.

Infine qualche cenno alla Regola8 : lavoriamo con le imbracature anticaduta solo se abbiamo ricevuto una formazione in materia.
Innanzitutto si indica che i sistemi di protezione collettiva come protezioni laterali, reti di sicurezza o ponteggi per facciate devono avere la priorità rispetto ai DPI anticaduta. In questo modo tutte le persone presenti sul tetto sono protette allo stesso modo.
E’ poi necessario stabilire i lavori che implicano l’uso dei DPI anticaduta. E per usarli correttamente è necessaria un’idonea formazione: chi lavora con i DPI anticaduta, deve potersi fidare ciecamente e sapere come funzionano esattamente e quali eventuali limiti possono avere o come affrontare un’eventuale caduta con l’imbracatura.

Nota Bene
Gli eventuali riferimenti legislativi contenuti nei documenti di SUVA riguardano la realtà svizzera, i suggerimenti indicati possono comunque essere utili per tutti i lavoratori.

Il documento di SUVA “Riparazione fatale per un copritetto”, dinamica di un incidente correlata alla campagna elvetica “Visione 250 vite” è scaricabile all’indirizzo:

Il documento di SUVA “Nove regole vitali per chi lavora su tetti e facciate. Vademecum”, edizione maggio 2012 è scaricabile all’indirizzo:



IMPARARE DAGLI ERRORI: LO SMANTELLAMENTO DI UN IMPIANTO DI GPL

Da: PuntoSicuro
27 ottobre 2016
di Tiziano Menduto

Un intervento si sofferma sulle attività di smantellamento di un impianto di GPL e ci aiuta ad individuare anche i fattori remoti degli incidenti. La dinamica dell’infortunio, i fattori prossimi e la ricostruzione dei fattori remoti.

“Imparare dagli errori”, la rubrica di PuntoSicuro dedicata al racconto e all’analisi degli infortuni lavorativi, ha spesso utilizzato in questi anni i casi di infortunio raccolti dalle schede di INFOR.MO., strumento per l’analisi qualitativa dei casi di infortunio collegato al sistema di sorveglianza degli infortuni mortali e gravi.
Ma INFOR.MO. è molto di più che un semplice archivio di casi, è un modello che consente di esporre in maniera strutturata e standardizzata la dinamica infortunistica, ovvero quella sequenza di eventi e circostanze che hanno portato il verificarsi dell’infortunio. Un modello che è sviluppato con un approccio innovativo perché, come ricordato in una recente pubblicazione dell’INAIL, “contempla e riconosce una causalità multifattoriale, nella quale entrano in gioco più fattori legati all’uomo come l’organizzazione del lavoro e la qualità della formazione dei vari profili dei lavoratori”.

Partendo da queste considerazioni, oggi questa puntata di “Imparare dagli errori” presenta un intervento al seminario “Infortuni sul lavoro: programmazione degli interventi, comunicazione”, organizzato dalla Società Nazionale degli Operatori della Prevenzione (SNOP), che si è tenuto il 4 marzo 2016 a Milano. Un intervento che ci permette di riflettere sull’utilizzo/lettura di INFOR.MO. e sulla necessità di individuare anche i fattori remoti degli incidenti.
In “Fattori di rischio prossimi e remoti degli infortuni lavorativi: un esempio di utilizzo del metodo INFOR.MO.”, a cura di Marcello Libener (ASL SPreSAL di Alessandria), ci si sofferma in particolare su infortunio correlato ad attività di smantellamento di un impianto di GPL.

Questo infortunio intercetta più elementi critici non immediatamente rilevabili dalla prima ricostruzione dei fatti e ci permette di riflettere sul comportamento apparentemente incomprensibile che sembrano adottare alcuni lavoratori in occasione degli incidenti sul lavoro e sull’influenza nella dinamica infortunistica di fattori remoti non sempre facilmente identificabili a monte dell’incidente. E permette anche di comprendere la rilevanza di alcuni “passi” imposti dalla norma in materia di salute e sicurezza sul lavoro spesso definiti semplici formalismi.

Due lavoratori di una impresa emiliana specializzata si recano in trasferta in un sito in Piemonte per procedere allo smantellamento dell’impianto di GPL per auto trazione. In particolare, devono bonificare il cunicolo e il serbatoio, rimuovendo le attrezzature in sala pompe di un distributore di carburante dismesso. Il sito si trova in stato di abbandono e in attesa di smantellamento degli impianti e della demolizione dei fabbricati. Successivamente un’altra impresa avrebbe effettuato opere edili di rimozione copertura, sabbia dalla cassaforma, brecce varie per rimozioni tubazioni su serbatoio. Il clima era estremamente rigido, soprattutto nella mattinata. I due lavoratori si sono quindi impegnati nell’operazione di smantellamento accedendo al piccolo locale interrato, utilizzato come sala pompe e adiacente alla cisterna del GPL. Come operazione preliminare hanno rimosso la valvola pneumatica posta sulla tubazione di mandata della cisterna. Successivamente, uno dei lavoratori si è portato in superficie mentre l’altro è rimasto nel piccolo locale sotterraneo. Nel primo pomeriggio, dopo la pausa pranzo, è fuoriuscito del gas che ha causato la saturazione del piccolo locale con conseguente riduzione dell’ossigeno presente. Ciò ha determinato l’asfissia dei due lavoratori, probabilmente prima al lavoratore posto nel locale e poi all’altro sceso in suo soccorso. I corpi privi di vita sono stati rinvenuti nel locale pompe in tarda serata. Nessuno dei due lavoratori aveva utilizzato il respiratore che avevano in dotazione.

L’intervento riporta vari schemi relativi all’individuazione dei “fattori prossimi” dell’incidente.
Le conclusioni di una lettura distorta e approssimativa di quanto raccolto e ricostruito dal sistema portano spesso a pensare che se il fattore determinante è l’attività dell’infortunato, la responsabilità di quanto accaduto ricade solo sul lavoratore. Ma è un modo errato di interpretare le ricostruzioni con INFOR.MO.

Indagando sui fattori meno prossimi all’incidente, si possono comprendere alcuni comportamenti apparentemente incomprensibili dei due lavoratori.
Ad esempio i lavori non erano stati adeguatamente organizzati e pianificati anche con una ricognizione preliminare da persona qualificata e delegata a programmare l’intervento. Ai due lavoratori non era chiaro quanto GPL fosse ancora presente nel serbatoio e quindi quanto tempo avrebbe richiesto la fase di svuotamento/bonifica dal GPL.

Vediamo la ricostruzione dei fattori remoti.
1° fattore remoto: organizzazione del cantiere secondo fasi prestabilite. Una ricognizione preliminare avrebbe rilevato che la scala di accesso al locale sotterraneo era sostanzialmente impraticabile e che l’aspiratore di cui era dotato il locale era inutilizzabile perché nel sito non c’era energia elettrica. La nomina di un Coordinatore avrebbe imposto di determinare le fasi di lavoro e la loro sequenza. Non era stato redatto un POS (Piano Operativo di Sicurezza) anche se sul mezzo sono stati trovati altri POS relativi a lavori simili; essi prevedevano per il trasferimento del GPL dai serbatoi, l’utilizzo della torcia, attrezzatura che non fornita ai due lavoratori.
2° fattore remoto: procedure non definite e, comunque, non perentorie. I due lavoratori avrebbero potuto utilizzare un sistema di cui erano dotati (estrattore costituito da ventilatore/aspiratore semovente e da canalizzazione con adattatore e gruppo elettrogeno) e che era in parte depositato sul terreno circostante. L’accesso al locale interrato avrebbe dovuto avvenire dopo aver indossato l’esplosimetro che è stato ritrovato sul furgone. Peraltro, le regole volte a evitare l’innesco di atmosfere esplosive erano state disattese con l’utilizzo di attrezzature in acciaio, invece di quelle in bronzo presenti sul furgone.
3° fattore remoto: fretta. La bonifica avrebbe dovuto impegnare i due lavoratori in trasferta per due giorni, quello dell’incidente e il successivo. Tuttavia, sull’automezzo è stata rinvenuta documentazione da cui emergeva che l’indomani uno dei due lavoratori avrebbe dovuto svolgere la sua attività nel parmense. E’ quindi verosimile che i due lavoratori avessero fretta di concludere il lavoro nella località alessandrina.
4° fattore remoto: organizzazione aziendale. Uno dei due lavoratori era informalmente individuato come “capo squadra” ma non risulta essere stato formato per svolgere tale funzione nel rispetto delle regole di salute e sicurezza (che come si è visto non c’erano o erano poco chiare).
Ne risulta un quadro diverso e nell’intervento è presentata, a questo punto, una dinamica più completa dell’infortunio, anche con riferimento alle caratteristiche del GPL per auto trazione.

Concludiamo ricapitolando i fattori remoti individuati nell’infortunio:
-         mancata conoscenza dello stato dei luoghi presso cui dovevano operare (mancanza di energia elettrica, presenza di notevole quantità di GPL nel serbatoio);
-         assenza di coordinamento durante le varie fasi di lavoro (assenza energia elettrica, errato ordine dei lavori, ecc.);
-         procedura di lavoro confusa e contraddittoria rispetto alle attrezzature a disposizione;
-         insufficiente preparazione almeno a livello teorico del capo squadra;
-         fretta.

L’intervento “Fattori di rischio prossimi e remoti degli infortuni lavorativi: un esempio di utilizzo del metodo INFOR.MO.”, a cura di Marcello Libener (ASL SPreSAL di Alessandria) è scaricabile all’indirizzo:


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