mercoledì 28 settembre 2016

27 settembre - SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! NEWSLETTER N. 269 DEL 27/09/16



NEWSLETTER PER LA TUTELA DELLA SALUTE
E DELLA SICUREZZA DEI LAVORATORI
(a cura di Marco Spezia - sp-mail@libero.it)

INDICE

LE “FREQUENTLY ASKED QUESTIONS” DI SICUREZZA SUL LAVORO - KNOW YOUR RIGHTS! - N.17
1
INFORTUNI SUL LAVORO: COME OTTENERE INDENNIZZI E RENDITE DALL’INAIL

7
IMPARARE DAGLI ERRORI: INCENDI ED ESPLOSIONI IN ATTIVITA’ DI SALDATURA
9
MOVIMENTAZIONE MANUALE DEI CARICHI: RISCHI PER LA SALUTE E PREVENZIONE
12
IMPARARE DAGLI ERRORI: L’IMPORTANZA DI PROTEGGERE LA TESTA
14







LE “FREQUENTLY ASKED QUESTIONS” DI SICUREZZA SUL LAVORO - KNOW YOUR RIGHTS! - N.17

Nella mia attività di diffusione della cultura della salute e sicurezza sul lavoro, spesso sono chiamato, da lavoratori o associazioni sindacali di base, a svolgere delle vere e proprie “consulenze” (ovviamente del tutto gratuite) di ampio respiro, che poi riporto, per condividere l’esperienza con tutti, nella mia newsletter, nella rubrica “Le consulenze di Sicurezza sul Lavoro – Know Your Rights!”.
In qualche caso invece le richieste che mi pervengono non richiedono consulenze di ampio respiro, ma brevi e sintetiche risposte a domande su temi molto specifici e limitati.
Anche in questo caso mi sembra giusto e doveroso diffondere questi brevi consulenze che hanno la forma delle cosiddette “Frequently Asked Questions”, facendo nascere su tale argomento una nuova rubrica della mia newsletter.
Ovviamente, per evidenti motivi di privacy e per non creare motivi di ritorsione verso i lavoratori o le associazioni che le hanno poste, riportando le domande ometto il nominativo del lavoratore e dell’azienda coinvolti.

************

Salve Marco,
ti scrivo perché vedo lesi i miei diritti di RLS in azienda e dei lavoratori che giornalmente si rivolgono a me per risolvere i problemi.
Sono stato formato con tanto di corso nel 2012 e ho sempre svolto con coscienza il mio ruolo. Lavoro come infermiere in un ospedale classificato privato (CCNL in allegato) e sono stato designato all’interno delle RSA firmatarie di contratto. Ora dall’altro anno, causa fuoriuscita dalla sigla firmataria di contratto, svolgo la mia attività sindacale in una OS non firmataria del CCNL, la quale mi ha comunque designato suo RLS in ospedale. Sempre l’anno scorso l’azienda per cui lavoro è stata ceduta (cessione ramo d’azienda ex articolo 47 della Legge 428/90) a un nuovo proprietario (una srl) il cui Amministratore Delegato non mi riconosce come RLS, affermando a parole che il sindacato che mi ha designato non è firmatario di contratto applicato in azienda e quindi, avendo già i 3 RLS della triplice che sono rimasti gli stessi anche nel trasferimento d’azienda, non ha bisogno del quarto (azienda con più di 200 dipendenti).
Ho chiesto di poter visionare il DVR e non mi è stato concesso, ho fatto varie segnalazioni senza riscontro. La situazione in ospedale lascia molto a desiderare potendo ben immaginare quale sia la libertà di agire dei tre RLS della triplice.
Il TUSL non mette un limite al numero massimo di RLS, ma parla solo di minimo (nel mio caso 3 essendo l’azienda con più di 200 dipendenti).
Il sindacato che mi ha designato come RLS ha seguito lo stesso iter (comunicazione della mia nomina da parte del Segretario provinciale all’Amministrazione), che ha invece tenuto la triplice senza mai fare le elezioni, come invece andrebbe fatto.
Sono formato e ho tanto di certificazione come RLS dal 2012, ho firmato il DVR con il precedente datore di lavoro, ho svolto sempre al meglio il mio compito, denunciando alla ASL Spresal le carenze e facendo intervenire gli ispettori. Forse questo non è stato gradito dal padrone, ma non me ne mai importato nulla. Ho subito intimidazioni e pressioni continue, ma ho sempre resistito e ho difeso la sicurezza dei lavoratori e i loro diritti sul posto di lavoro.
Adesso il nuovo datore di lavoro pensa che si è finalmente tolto dai piedi un rompiscatole, negandomi l’accesso alla funzione di RLS.
Avevamo pensato insieme alla Segreteria provinciale di convocare l’azienda in Direzione Territoriale del Lavoro per questa vicenda. Secondo te potrebbe essere la strada buona?
Secondo te cosa dovrei fare per farmi riconoscere il ruolo di RLS e poter tutelare i miei colleghi infermieri e i lavoratori tutti sul posto di lavoro? Hai consigli da darmi?
Ti saluto.

Ciao,
innanzitutto comprendo in pieno la tua incazzatura nei confronti dell’azienda che non ti vuole riconoscere il tuo ruolo, ma anche nei confronti dei RLS della triplice che non fanno quello che la legge permette loro (e impone moralmente) di fare.
Seguo personalmente o indirettamente decine di casi simili al tuo in cui i RLS che si impegnano vengono boicottati e/o minacciati più o meno velatamente dalle aziende e in cui altri RLS fanno vita tranquilla perché se ne fregano della tutela dei lavoratori.
Il tuo è un caso complesso, andando a interessare non solo il D.Lgs. 81/08 (Decreto), ma anche CCNL e vari accordi sindacali.
Parto allora dal Decreto che definisce le linee guida per la designazione e quindi la legittimizzazione dei RLS.
I criteri generali di elezione o designazione del RLS sono definiti, per aziende come la tua con più di 15 lavoratori dall’articolo 47, comma 4 del Decreto:
Nelle aziende o unità produttive con più di 15 lavoratori il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza è eletto o designato dai lavoratori nell’ambito delle rappresentanze sindacali in azienda. In assenza di tali rappresentanze, il rappresentante è eletto dai lavoratori della azienda al loro interno”.
Le modalità di elezione o designazione del RLS sono invece demandate dal Decreto alla contrattazione collettiva, ai sensi del successivo comma 5:
Il numero, le modalità di designazione o di elezione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, nonché il tempo di lavoro retribuito e gli strumenti per l’espletamento delle funzioni sono stabiliti in sede di contrattazione collettiva”.
Il Decreto non stabilisce un numero massimo di RLS, ma come dici giustamente te, solo un numero minimo, al comma 7 del solito articolo:
In ogni caso il numero minimo dei rappresentanti di cui al comma 2 è il seguente:
a) un rappresentante nelle aziende ovvero unità produttive sino a 200 lavoratori;
b) tre rappresentanti nelle aziende ovvero unità produttive da 201 a 1.000 lavoratori;
c) sei rappresentanti in tutte le altre aziende o unità produttive oltre i 1.000 lavoratori. In tali aziende il numero dei rappresentanti è aumentato nella misura individuata dagli accordi interconfederali o dalla contrattazione collettiva”.
Quindi da quest’ultimo punto di vista le affermazioni della tua azienda sono del tutto pretestuose.
La tua azienda potrebbe invece avere ragione in merito alla modalità della tua elezione e della durata del tuo mandato.
E mi spiego a seguire.
In merito alle modalità di dettaglio di elezione o designazione del RLS, a seguito dell’articolo 6 comma a) dell’Accordo del 9 aprile 2015 relativo alla cessione del ramo di azienda, è ancora valido quanto stabilito dal CCNL che mi hai inviato.
Tale CCNL prevede all’Allegato 6, articolo 1 che:
Entro il 31 dicembre 1996, in tutte le strutture sanitarie aderenti alle Associazioni datoriali firmatarie saranno promosse le iniziative, con le modalità di seguito indicate, per l’elezione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. Sono fatte salve le nomine del rappresentante di sicurezza già effettuate alla data di sottoscrizione del presente Accordo, fermo restando quanto previsto dal successivo articolo 4”.
Inoltre all’articolo 6, il medesimo Allegato 6 del CCNL stabilisce che:
La durata dell’incarico è di 3 anni”.
Metto in evidenza che tale CCNL fa ancora riferimento al D.Lgs. 626/94, che però in termini di elezione o designazione del RLS è del tutto simile al Decreto, prevedendo all’articolo 18, comma 3 che:
Nelle aziende, ovvero unità produttive, con più di 15 dipendenti il rappresentante per la sicurezza è eletto o designato dai lavoratori nell’ambito delle rappresentanze sindacali in azienda. In assenza di tali rappresentanze, è eletto dai lavoratori dell’azienda al loro interno”, del tutto analogo a quanto disposto dal Decreto.
Tale CCNL non specifica altro in merito alla elezione o designazione del RLS.
Pertanto da quanto previsto dal Decreto (ma anche da quanto era previsto dal D.Lgs. 626/94), combinato con quanto previsto dal CCNL discende che, per la tua azienda:
-         il RLS deve essere eletto o designato all’interno delle rappresentanze sindacali aziendali;
-         il mandato del RLS ha una durata di tre anni.
Visto cosa dice la normativa e il CCNL, nel tuo caso particolare possono sorgere i seguenti problemi.
Da quello che ho capito tu sei stato designato nel 2012, all’interno delle RSA in quel momento riconosciute dall’azienda.
Secondo il CCNL, il tuo incarico scadeva quindi nel 2015.
Se tu sei stato nuovamente designato nel 2015 e quindi il tuo incarico è stato rinnovato fino al 2018, l’azienda deve per forza riconoscerti come RLS, in quanto sei stato designato, come previsto dall’articolo 47, comma 4 del Decreto “nell’ambito delle rappresentanze sindacali in azienda”, cioè all’interno delle RSA che nel 2015 erano riconosciute dall’azienda.
E ciò fino al 2018, data in cui scadrà il tuo mandato come RLS.
Se tu invece non sei stato rinnovato nel 2015 come RLS, la tua azienda si può appellare al fatto che il tuo mandato sia scaduto.
Una tua eventuale nuova designazione al momento attuale non potrebbe essere inoltre essere fatta “nell’ambito delle rappresentanze sindacali in azienda”, in quanto la tua OS, come mi sembra di avere capito, non è riconosciuta come RSA o RSU dalla tua azienda.
In questi termini la tua azienda ha quindi effettivamente e purtroppo la possibilità di non riconoscerti, appellandosi, in maniera strumentale a cavilli legislativi e contrattuali.
Questa è la mia interpretazione di quanto disposto a livello legislativo e contrattuale.
In ogni caso non lascerei intentata la iniziativa di convocare l’azienda alla Direzione del Lavoro, ma prima di fare questo passo, ti consiglio di rivolgerti alla ASL Servizio di Prevenzione della Sicurezza nel Luoghi di Lavoro territorialmente competente, in quanto tale organo è incaricato della corretta applicazione del Decreto e della normativa ad esso collegato, ai sensi dell’articolo 13, comma 1 del decreto stesso:
La vigilanza sull’applicazione della legislazione in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro è svolta dalla azienda sanitaria locale competente per territorio e, per quanto di specifica competenza, dal Corpo nazionale dei Vigili del Fuoco”.
Ti consiglio di richiedere formalmente alla ASL un’opinione sulla validità o meno del tuo ruolo come RLS alla luce della normativa richiamata.
In assenza di una risposta da parte della ASL, ma anche in aggiunta alla domanda alla ASL, potrete rivolgere, come OS, il medesimo quesito alla Commissione degli Interpelli di cui all’articolo 12, comma 2 del Decreto.
Una convocazione dell’azienda alla DTL alla luce di un’interpretazione normativa da parte della ASL o, meglio ancora, della Commissione degli Interpelli avrebbe sicuramente una maggiore valenza, anche “politica”.
Rimango a tua disposizione per ulteriori chiarimenti.
Un caro saluto.
Marco

************

Buongiorno Marco
ancora una volta grazie per tutta la mole di lavoro che svolgi a beneficio dei lavoratori sul tema della sicurezza e della salute.
Ti pongo ora un quesito per capire meglio come agire.
Da circa qualche settimana sono stati messi in servizio per la raccolta dei rifiuti “porta a porta” dei mezzi di raccolta i quali presentano nel loro lato destro, ovvero dove è posta la guida del mezzo e dalla quale i colleghi salgono e scendono, il tubo di scarico dei fumi.
Questo scarico una volta in funzione emana fumi dalla parte dove operano i colleghi investendoli talvolta con esalazioni a dir poco asfissianti come pure durante il normale utilizzo del mezzo.
Ho inoltrato già una segnalazione alla ASL SPISAL per una verifica del mezzo citando le varie normativa macchine, ma ancora non ho trovato risposta.
Ora secondo la tua esperienza e conoscenze vi è la possibilità ancora di fare un’ulteriore segnalazione avendo acquisito tali informazioni? 
Oltre allo SPISAL vi sono altri enti ai quali fare la segnalazione?
Ti ringrazio del tempo dedicato e della risposta in merito, augurandoti buon lavoro. 
RLS



Ciao,
ti riporto a seguire cosa prevede la normativa vigente.
Nella tua segnalazione alla ASL SPISAL, hai fatto appello alla facoltà concessa al RLS dall’articolo 50, comma 1, lettera o) del D.Lgs. 81/08:
Fatto salvo quanto stabilito in sede di contrattazione collettiva, il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza può fare ricorso alle autorità competenti qualora ritenga che le misure di prevenzione e protezione dai rischi adottate dal datore di lavoro o dai dirigenti e i mezzi impiegati per attuarle non siano idonei a garantire la sicurezza e la salute durante il lavoro”.
Per quanto riguarda quali siano le autorità competenti, fa fede quanto disposto dal Decreto di cui sopra, che all’articolo 13, comma 1, dispone che:
La vigilanza sull’applicazione della legislazione in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro è svolta dalla Azienda Sanitaria Locale competente per territorio e, per quanto di specifica competenza, dal Corpo nazionale dei vigili del fuoco [...]”.
Quindi correttamente hai inoltrato la segnalazione alla ASL SPISAL, in quanto è a tale organismo che compete, secondo il D.Lgs. 81/08, la vigilanza in tema di tutela della salute e della sicurezza.
La citata facoltà in capo agli RLS è in realtà possibile per qualunque cittadino che venga a conoscenza di un reato (e la mancata tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, cioè i mancati adempimenti definiti dal D.Lgs. 81/08 sono appunto reati), in virtù dell’articolo 333, commi 1 e 2 del Codice di Procedura Penale:
Ogni persona che ha notizia di un reato perseguibile di ufficio può farne denuncia. La legge determina i casi in cui la denuncia è obbligatoria. La denuncia è presentata oralmente o per iscritto, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, al pubblico ministero o a un ufficiale di polizia giudiziaria; se è presentata per iscritto, è sottoscritta dal denunciante o da un suo procuratore speciale”.
Le richieste di intervento degli ispettori della ASL da parte dei RLS (o dei lavoratori in generale) deve essere fatta in maniera formale, cioè con lettera scritta di denuncia di reato, inviata tramite Raccomandata RR oppure Posta Elettronica Certificata (in partenza e in arrivo), sia alla ASL, che, per conoscenza, al Pubblico Ministero della Procura della Repubblica di competenza, che ha il compito di verificare il corretto operato degli ispettori (vedi dopo).
Va osservato che gli ispettori ASL sono Ufficiali di Polizia Giudiziaria.
Infatti l’articolo 19, comma 1, lettera b) del D.Lgs. 789/94 definisce come “organi di vigilanza” relativamente ai reati relativi alla salute e alla sicurezza sul lavoro:
il personale ispettivo di cui all’articolo 21, terzo comma, della legge 23 dicembre 1978, n.833, fatte salve le diverse competenze previste da altre norme”.
A sua volta l’articolo 21 della L. 833/78 stabilisce che:
In applicazione di quanto disposto nell’ultimo comma dell’articolo 27, D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, spetta al prefetto stabilire su proposta del presidente della regione, quali addetti ai servizi di ciascuna unità sanitaria locale, nonché ai presidi e servizi [...] assumano ai sensi delle leggi vigenti la qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria, in relazione alle funzioni ispettive e di controllo da essi esercitate relativamente all’applicazione della legislazione sulla sicurezza del lavoro”.
In quanto Ufficiali di Polizia Giudiziaria gli ispettori ASL ai quali è stato formalmente comunicato il reato devono intervenire obbligatoriamente ai sensi dell’articolo 55, comma 1 del Codice di Procedura Penale:
La polizia giudiziaria deve, anche di propria iniziativa, prendere notizia dei reati, impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, ricercarne gli autori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale”;
per impartire al datore di lavoro la prescrizione per l’adempimento dell’obbligo, secondo la procedura fissata dall’articolo 20 del D.Lgs.758/94:
1. Allo scopo di eliminare la contravvenzione accertata, l’organo di vigilanza, nell’esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria di cui all’articolo 55 del codice di procedura penale, impartisce al contravventore un’apposita prescrizione, fissando per la regolarizzazione un termine non eccedente il periodo di tempo tecnicamente necessario. Tale termine è prorogabile a richiesta del contravventore, per la particolare complessità o per l’oggettiva difficoltà dell’adempimento. In nessun caso esso può superare i sei mesi. Tuttavia, quando specifiche circostanze non imputabili al contravventore determinano un ritardo nella regolarizzazione, il termine di sei mesi può essere prorogato per una sola volta, a richiesta del contravventore, per un tempo non superiore ad ulteriori sei mesi, con provvedimento motivato che è comunicato immediatamente al pubblico ministero.
2. Copia della prescrizione è notificata o comunicata anche al rappresentante legale dell’ente nell’ambito o al servizio del quale opera il contravventore.
3. Con la prescrizione l’organo di vigilanza può imporre specifiche misure atte a far cessare il pericolo per la sicurezza o per la salute dei lavoratori durante il lavoro.
4. Resta fermo l’obbligo dell’organo di vigilanza di riferire al pubblico ministero la notizia di reato inerente alla contravvenzione ai sensi dell’articolo 347 del codice di procedura penale”.
Gli ispettori ASL devono inoltre verificare che la prescrizione sia ottemperata nei tempi impartiti dalla prescrizione stessa, secondo l’articolo 21 del D.Lgs.758/94:
1. Entro e non oltre sessanta giorni dalla scadenza del termine fissato nella prescrizione, l’organo di vigilanza verifica se la violazione è stata eliminata secondo le modalità e nel termine indicati dalla prescrizione.
2. Quando risulta l’adempimento alla prescrizione, l’organo di vigilanza ammette il contravventore a pagare in sede amministrativa, nel termine di trenta giorni, una somma pari al quarto del massimo dell’ammenda stabilita per la contravvenzione commessa. Entro centoventi giorni dalla scadenza del termine fissato nella prescrizione, l’organo di vigilanza comunica al pubblico ministero l’adempimento alla prescrizione, nonché l’eventuale pagamento della predetta somma.
3. Quando risulta l’inadempimento alla prescrizione, l’organo di vigilanza ne dà comunicazione al pubblico ministero e al contravventore entro novanta giorni dalla scadenza del termine fissato nella prescrizione”.
Di tutti questi passi, come si evince dal testo degli articoli, l’ASL come organismo di vigilanza deve dare comunicazione al Pubblico Ministero, come anche disposto dall’articolo 347 comma 1 del Codice di Procedura Penale:
Acquisita la notizia di reato, la Polizia Giudiziaria, senza ritardo, riferisce al Pubblico Ministero, per iscritto, gli elementi essenziali del fatto e gli altri elementi sino ad allora raccolti, indicando le fonti di prova e le attività compiute, delle quali trasmette la relativa documentazione”.
In caso di adempimento e di pagamento della sanzione da parte del datore di lavoro, il reato penale è estinto. In caso contrario (mancato adempimento o mancato pagamento della sanzione) viene avviato dal Pubblico Ministero nei confronti del datore di lavoro il procedimento penale.
Se a seguito di denuncia formale, i funzionari ASL non intervengono, commettono a loro volta reato penale, secondo l’articolo 328 del Codice Penale:
Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni”.
In questo caso occorre denunciare il fatto alla Procura della Repubblica (cioè al Pubblico Ministero), allegando la lettera inviata alla ASL corredata della cartolina di RR (oppure messaggio di ricevuta della Posta Elettronica Certificata) e segnalando da parte dei funzionari ASL il mancato adempimento degli obblighi di cui all’articolo 20 del D.Lgs.758/94 e dell’articolo 55, comma 1 del Codice di Procedura Penale sopra citati.
Inoltre si può richiedere al Pubblico Ministero la richiesta di intervento da parte della ASL ai sensi dell’articolo 22, comma 1 del D.Lgs.758/94:
Se il pubblico ministero prende notizia di una contravvenzione di propria iniziativa ovvero la riceve da privati o da pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio diversi dall’organo di vigilanza, ne dà immediata comunicazione all’organo di vigilanza per le determinazioni inerenti alla prescrizione che si rende necessaria allo scopo di eliminare la contravvenzione”.
Nel caso da te citato, si possono configurare due mancati adempimenti alla normativa vigente.
Il primo, da parte del costruttore del veicolo raccolta rifiuti, è il mancato rispetto dell’articolo 3, comma 3, lettera a) del D.Lgs. 17/10 (recepimento della Direttiva Macchine 2006/42/CE che impone che:
Il fabbricante o il suo mandatario, prima di immettere sul mercato ovvero mettere in servizio una macchina si accerta che soddisfi i pertinenti requisiti essenziali di sicurezza e di tutela della salute indicati nell’allegato I”.
Nel caso in particolare il requisito essenziale di sicurezza non rispettato è quello di cui al punto 1.5.13 dell’Allegato I:
La macchina deve essere progettata e costruita in modo tale da evitare i rischi di inalazione, ingestione, contatto con la pelle, gli occhi e le mucose e di penetrazione attraverso la pelle delle materie e sostanze pericolose prodotte.
Se il pericolo non può essere eliminato, la macchina deve essere equipaggiata in modo che le materie e sostanze pericolose possano essere captate, aspirate, precipitate mediante vaporizzazione di acqua, filtrate o trattate con un altro metodo altrettanto efficace.
Qualora il processo non sia totalmente chiuso durante il normale funzionamento della macchina, i dispositivi di captazione e/o di aspirazione devono essere situati in modo da produrre il massimo effetto”.
Il secondo mancato adempimento alla norma può configurarsi da parte del datore di lavoro della tua azienda, per mancato rispetto dell’articolo 71, comma 1 del D.Lgs. 81/08 che impone che:
Il datore di lavoro mette a disposizione dei lavoratori attrezzature conformi ai requisiti di cui all’articolo precedente [conformi alle specifiche disposizioni legislative e regolamentari di recepimento delle direttive comunitarie di prodotto nel caso in particolare], idonee ai fini della salute e sicurezza e adeguate al lavoro da svolgere o adattate a tali scopi che devono essere utilizzate conformemente alle disposizioni legislative di recepimento delle direttive comunitarie”.
Il fatto che la macchina in questione sia marcata CE non esime il datore di lavoro della ditta utilizzatrice dall’eseguire una specifica analisi dei rischi per la salute e la sicurezza relativi alla macchina, specie se questi, come in questo caso sono particolarmente evidenti e predisporre adeguate misure di prevenzione e protezione.
Premesso quanto dispone la normativa sopra citata, ti consiglio:
-         di scrivere nuovamente alla ASL SPISAL, segnalando il mancato rispetto da parte del costruttore dei mezzi raccolta rifiuti di quanto stabilito dal D.Lgs. 17/10 e la mancata messa a disposizione da parte del datore di lavoro di attrezzature conformi ai requisiti di salute e sicurezza, secondo il D.Lgs. 81/08, inviando la segnalazione (come detto) per Raccomandata RR o per PEC e mettendo in conoscenza anche il Pubblico Ministero presso la Procura della Repubblica competente per territorio;
-         in caso di mancato intervento degli ispettori della ASL SPISAL, di scrivere direttamente al Pubblico Ministero, segnalando il mancato rispetto da parte degli ispettori di quanto disposto dal dell’articolo 55, comma 1 del Codice di Procedura Penale e invitando il Pubblico Ministero stesso a una richiesta formale di intervento degli ispettori ASL SPISAL, ai sensi dell’articolo 22, comma 1 del D.Lgs.758/94.
A disposizione per ulteriori chiarimenti, rimango in attesa di novità in merito a quanto da te segnalato.
Un caro saluto.
Marco

************

NOTA
Nel testo delle “Frequently Asked Questions” sopra riportate sono state usati i seguenti acronimi e termini:
ASL = Azienda Sanitaria Locale
CCNL = Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro
DPI = Dispositivi di Protezione Individuali
DVR = Documento di Valutazione dei Rischi
DUVRI = Documento Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenza in caso di lavori in appalto
OS = Organizzazioni Sindacali
RSPP = Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione
RLS = Rappresentate dei Lavoratori per la Sicurezza
RSA = Rappresentanze Sindacali Aziendali
RSU = Rappresentanze Sindacali Unitarie
D.Lgs. 81/08 o Decreto o TUSL: Decreto Legislativo n.81 del 9 aprile 2008 e successive modifiche e integrazioni (cosiddetto “Testo Unico sulla sicurezza sul lavoro”)



INFORTUNI SUL LAVORO: COME OTTENERE INDENNIZZI E RENDITE DALL’INAIL

Da Studio Cataldi
18/09/16
di Valeria Zeppilli

L’indennizzabilità del danno, l’indennità giornaliera, la rendita, il risarcimento del danno biologico, la denuncia di infortunio e le altre prestazioni
L’infortunio sul lavoro è quello che si verifica per causa violenta in occasione di lavoro, comportando, per il lavoratore, la morte, l’inabilità permanente assoluta o parziale al lavoro, l’inabilità temporanea totale per più di 3 giorni o un danno biologico.

LA CAUSA VIOLENTA E L’OCCASIONE DI LAVORO
Come accennato, un infortunio è indennizzabile dall’INAIL anzitutto se imputabile a una causa violenta. Si tratta, nei fatti, di un’aggressione esterna all’indennità psico-fisica del lavoratore, intensa e concentrata nel tempo. Non sono, invece, indispensabili i requisiti della straordinarietà, dell’accidentalità o dell’imprevedibilità del fatto lesivo.
Proprio le caratteristiche della causa violenta permettono di distinguere l’infortunio dalla malattia, caratterizzata, invece, da una causa lenta.
La causa violenta deve, poi, verificarsi in occasione di lavoro. Ciò vuol dire che tra l’attività lavorativa e l’infortunio deve sussistere un rapporto, diretto o indiretto, di causa-effetto, senza che sia sufficiente che l’evento si verifichi durante il lavoro.
Se l’infortunio è connesso a una condotta riconducibile all’attività lavorativa, l’indennizzabilità non è compromessa dal comportamento imprudente, negligente o privo di perizia del lavoratore, mentre restano esclusi dalla tutela gli infortuni le cui conseguenze siano dolosamente aggravate dal lavoratore o che derivino dall’abuso di sostanze alcoliche e di psicofarmaci, dall’uso non terapeutico di stupefacenti e allucinogeni o dalla mancanza della patente di guida.

L’INFORTUNIO IN ITINERE
Si considera verificatosi durante il lavoro anche il cosiddetto “infortunio in itinere”, ovverosia quello che avviene durante il tragitto compiuto per raggiungere, dalla propria abitazione, il luogo di lavoro o quello compiuto per recarsi da un luogo di lavoro a un altro o, infine, quello necessario per la consumazione dei pasti in assenza di mensa aziendale.
Se l’infortunio si verifica durante eventuali deviazioni rispetto ai predetti tragitti, esso è risarcibile dall’INAIL solo se tali deviazioni siano necessarie per accompagnare i figli a scuola, conseguenza di una direttiva del datore di lavoro o dovute a causa di forza maggiore, ad esigenze assistenziali improrogabili o ad obblighi penalmente rilevanti. In caso di sosta il risarcimento è riconosciuto solo se essa sia breve e non alteri le condizioni di rischio.
Occorre tuttavia chiarire che il tragitto percorso con l’utilizzo di un mezzo privato è coperto dall’assicurazione solo se tale uso sia indispensabile, come ad esempio nel caso in cui il mezzo sia fornito o prescritto dal datore di lavoro per esigenze lavorative o nel caso in cui il luogo di lavoro non possa essere raggiunto, o non possa essere raggiunto in tempo utile, con l’utilizzo dei mezzi pubblici.

L’INDENNIZZABILITA’ DEL DANNO
Il danno derivante dall’infortunio sul lavoro è indennizzabile solo laddove sia di particolare rilevo e comporti, quindi, una riduzione della capacità lavorativa di almeno il 16%, un danno biologico quantificato in minimo 6 punti percentuali, un’inabilità assoluta temporanea al lavoro.
In particolare se il danno permanente è:
-         inferiore al 6%, non si ha diritto ad alcun indennizzo;
-         di entità compresa tra il 6% e il 15%, si ha diritto all’indennizzo in capitale del danno biologico;
-         di entità compresa tra il 16% e il 100%, si ha diritto a una rendita a titolo di indennizzo sia del danno biologico sia del danno patrimoniale.

L’INDENNITA’ GIORNALIERA PER LA INABILITA’ TEMPORANEA
Nel caso in cui dall’infortunio sia derivata al lavoratore un’inabilità al lavoro temporanea e assoluta, egli avrà diritto a un’indennità giornaliera corrisposta dall’INAIL a partire dal quarto giorno (i primi tre giorni sono a carico del datore di lavoro) e pari al 60% della retribuzione per i primi 90 giorni e al 75% dal novantunesimo giorno in poi.
Terminato il periodo di inabilità temporanea, il lavoratore è sottoposto a visita medico-legale dall’INAIL al fine di valutare la presenza di eventuali postumi.

LA RENDITA DIRETTA
Nel caso in cui dall’infortunio sia derivata al lavoratore un’inabilità permanente, assoluta o parziale, fino al 25 luglio 2000 egli aveva diritto ad una rendita corrisposta mensilmente.
Essa spetta ancora oggi ai lavoratori che abbiano subito un infortunio prima di tale data ed è subordinata alla circostanza che l’inabilità derivata fosse almeno pari all’11%.
La rendita è incompatibile con le pensioni di inabilità e gli assegni di invalidità erogati per il medesimo evento invalidante ma è cumulabile con le pensioni di vecchiaia e di anzianità.

IL RISARCIMENTO DEL DANNO BIOLOGICO
Per gli infortuni avvenuti a partire dal 25 luglio 2000 è previsto il risarcimento, da parte dell’INAIL, del danno biologico subito dal lavoratore a seguito di infortunio sul lavoro.
Esso è influenzato nel suo ammontare dal tipo e dalla percentuale di menomazione che ne è derivata e soggiace alle stesse incompatibilità previste per la rendita diretta.
Bisogna quindi fare riferimento, congiuntamente, alla tabella delle menomazioni e alla tabella di indennizzo del danno biologico.
Se la menomazione è inferiore al 6% il danno biologico, come visto, non è riconosciuto, se essa è compresa tra il 6% e il 15% comporta l’erogazione di una somma in capitale, una tantum, influenzata anche dal sesso e dall’età del danneggiato.
Se, infine, la menomazione è superiore al 16% dà luogo a una rendita corrisposta tramite l’INPS e influenzata, nel suo ammontare, oltre che dalla percentuale di invalidità, anche dallo stipendio e da un coefficiente di maggiorazione.
In tale ultime ipotesi il lavoratore può anche ottenere il risarcimento del danno patrimoniale subito, calcolato riferendosi alla cosiddetta tabella dei coefficienti.

LA DENUNCIA DI INFORTUNIO
Il lavoratore è tenuto a denunciare immediatamente l’infortunio al datore di lavoro, il quale deve a sua volta denunciarlo all’INAIL entro due giorni.
In ogni caso per poter ottenere l’erogazione delle prestazioni, il lavoratore deve fare espressa domanda all’INAIL entro tre anni e centocinquanta giorni dall’evento dannoso, compilando un modulo scaricabile online o recandosi presso le sedi dell’istituto.

ALTRE PRESTAZIONI.
La tutela previdenziale prevede ulteriori prestazioni oltre a quelle fondamentali sopra analizzate.
Ad esempio, al lavoratore che benefici della rendita e, invalido al 100%, non sia in grado di far fronte autonomamente alle esigenze di vita quotidiana, spetta anche un assegno per l’assistenza personale continuativa.
E’ previsto, poi, un assegno di incollocabilità corrisposto al lavoratore che, a causa delle conseguenze riportate a seguito dell’infortunio, stimate in almeno il 34% di invalidità, non possa usufruire del sistema di collocamento obbligatorio.
Si pensi, inoltre, alla rendita corrisposta ai superstiti nel caso in cui dall’infortunio sia derivata la morte del lavoratore, da dividersi pro quota tra il coniuge e i figli, in mancanza tra gli ascendenti se a carico del defunto o, in subordine, a fratelli e sorelle conviventi e a carico del defunto.



IMPARARE DAGLI ERRORI: INCENDI ED ESPLOSIONI IN ATTIVITA’ DI SALDATURA

Da: PuntoSicuro
08 settembre 2016
di Tiziano Menduto

Esempi di infortuni correlati alle attività di saldatura con riferimento al rischio di incendio e esplosione. La saldatura di un serbatoio di gasolio e la vicinanza di bidoni con vernici e solventi. Gli infortuni, la normativa e la prevenzione.

Non sono pochi i rischi per la salute e la sicurezza degli operatori impegnati nelle attività di saldatura. Ad esempio rischi collegati alla presenza di agenti chimici e cancerogeni (fumi, polveri, vapori, gas, ecc.), all’esposizione al rumore, ai campi elettromagnetici, alle alte temperature, alle atmosfere esplosive, ecc.
Per questo motivo ogni tanto la rubrica di PuntoSicuro “Imparare dagli errori”, dedicata agli infortuni e alle malattie professionali, si sofferma sugli incidenti, sui rischi e sulla prevenzione nelle molte attività di saldatura diffuse in vari comparti lavorativi.

Ci soffermiamo in particolare oggi su alcuni infortuni correlati alla presenza di materiali infiammabili e di atmosfere esplosive.
Ricordiamo che i casi che presentiamo sono raccolti nell’archivio di schede di INFOR.MO., strumento per l’analisi qualitativa dei casi di infortunio collegato al sistema di sorveglianza degli infortuni mortali e gravi.

Il primo caso riguarda un infortunio avvenuto nel 2012 a un lavoratore straniero durante le operazioni di saldatura di un serbatoio di gasolio in metallo per camion.
Durante l’attività di saldatura del serbatoio si verifica uno scoppio con distacco delle pareti laterali e dei setti divisori interni che colpiscono il lavoratore con la conseguenza di un grave trauma cranio-encefalico e successivo arresto cardio-circolatorio.
Il fattore causale dell’incidente, rilevato dalla scheda di INFOR.MO., è un errore procedurale che potrebbe dipendere anche da carenze nella formazione/informazione/addestramento del lavoratore: l’infortunato operava in una situazione di gravità in quanto a rischio esplosione.

Anche il secondo caso, un infortunio del 2004, riguarda le conseguenze di un’esplosione e di un incendio.
Il titolare di una ditta e un dipendente stanno costruendo un cavalletto in metallo da montare su di un piccolo autocarro per il trasporto degli infissi da loro prodotti.
Mentre stanno saldando/molando, verosimilmente delle scintille vanno a contatto con alcuni bidoni che hanno contenuto e/o contengono vernici e solventi (probabilmente alcuni bidoni non sono coperti) che si trovano lì vicino.
A causa di queste scintille si innesca una prima esplosione e un successivo incendio.
I due lavoratori si trovano all’interno di un prolungamento costruito a ridosso del capannone (abusivo), dove all’interno si eseguivano piccoli lavori di saldatura e di verniciatura.
A causa dell’incendio, in prossimità dell’unica apertura (portone) presente, il titolare che si trova all’interno rimane intrappolato, mentre il dipendente che si trova all’esterno viene solo leggermente ferito dall’esplosione e dall’incendio.
Questi i fattori causali dell’infortunio mortale, come rilevati dalla scheda:
-         il lavoratore stava eseguendo delle saldature/molature vicino a bidoni di diluente e vernice;
-         sul luogo di lavoro vi sono bidoni contenenti vernici e solventi non coperti.

Riguardo al tema delle esplosioni ricordiamo innanzitutto che alla protezione da atmosfere esplosive, il Decreto legislativo 81/2008, Testo Unico in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, dedica il Titolo XI. Dove con “atmosfera esplosiva” si intende una miscela con l’aria, a condizioni atmosferiche, di sostanze infiammabili allo stato di gas, vapori, nebbie o polveri in cui, dopo accensione, la combustione si propaga nell’insieme della miscela incombusta.

Riprendiamo, a questo proposito, due degli articoli contenuti nel Titolo XI.

L’articolo 289 “Prevenzione e protezione contro le esplosioni” specifica che:
“1. Ai fini della prevenzione e della protezione contro le esplosioni, sulla base della valutazione dei rischi e dei principi generali di tutela di cui all’articolo 15, il datore di lavoro adotta le misure tecniche e organizzative adeguate alla natura dell’attività; in particolare il datore di lavoro previene la formazione di atmosfere esplosive.
2. Se la natura dell’attività non consente di prevenire la formazione di atmosfere esplosive, il datore di lavoro deve:
a) evitare l’accensione di atmosfere esplosive;
b) attenuare gli effetti pregiudizievoli di un’esplosione in modo da garantire la salute e la sicurezza dei lavoratori.
3. Se necessario, le misure di cui ai commi 1 e 2 sono combinate e integrate con altre contro la propagazione delle esplosioni e sono riesaminate periodicamente e, in ogni caso, ogniqualvolta si verifichino cambiamenti rilevanti”.

Mentre l’articolo 290 “Valutazione dei rischi di esplosione” specifica che:
“1. Nell’assolvere gli obblighi stabiliti dall’articolo 17, comma 1, il datore di lavoro valuta i rischi specifici derivanti da atmosfere esplosive, tenendo conto almeno dei seguenti elementi:
a) probabilità e durata della presenza di atmosfere esplosive;
b) probabilità che le fonti di accensione, comprese le scariche elettrostatiche, siano presenti e divengano attive ed efficaci;
c) caratteristiche dell’impianto, sostanze utilizzate, processi e loro possibili interazioni;
d) entità degli effetti prevedibili.
2. I rischi di esplosione sono valutati complessivamente.
3. Nella valutazione dei rischi di esplosione vanno presi in considerazione i luoghi che sono o possono essere in collegamento, tramite aperture, con quelli in cui possono formarsi atmosfere esplosive”.

Riguardo sempre ai rischi di incendio e di esplosione prendiamo spunto da alcune indicazioni normative regionali dedicate, in questo caso, alle attività di saldatura metalli.

In particolare il Decreto n. 10033 del 9 novembre 2012 della Direzione Generale Sanità della Regione Lombardia ha approvato il documento “Vademecum per il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori nelle attività di saldatura metalli”. Vademecum che dedica uno spazio proprio al rischio incendio.

Si indica che per le aziende che effettuano lavorazione di saldatura di metalli, generalmente il rischio incendio viene considerato “medio”, pur non potendo escludere che, in casi specifici (dimensioni dell’azienda, capacità produttive dell’impianto, ecc.), la valutazione conduca ad una classificazione di livello di rischio “elevato”.

Questi i contenuti minimi del documento di valutazione del rischio incendio:
-         informazioni sulle caratteristiche di infiammabilità ed esplosività delle materie prime e di eventuali intermedi;
-         quantitativi in uso e in deposito;
-         caratteristiche degli ambienti con eventuale compartimentazione;
-         elenco attrezzature e impianti da utilizzare per l’estinzione, ubicazione e relativo programma di verifica e manutenzione periodica;
-         caratteristiche dell’impianto elettrico;
-         classificazione del rischio.

Infine il vademecum riporta ulteriori adempimenti correlati al rischio incendio:
-         eventuale valutazione dei rischi di esplosione (in relazione alle caratteristiche delle sostanze utilizzate), vedi Titolo XI del D.Lgs. 81/08;
-         redazione del piano di emergenza ed evacuazione;
-         nomina e formazione degli addetti all’emergenza ed evacuazione;
-         nomina e formazione degli addetti al primo soccorso;
-         installazione e manutenzione della segnaletica relativa alle attrezzature.

Il sito web di INFOR.MO., di cui nell’articolo abbiamo presentato le schede numero 2737 e 1399, è al link:

Il Decreto n. 10033 del 9 novembre 2012 della Direzione Generale Sanità della Regione Lombardia contenente il documento “Vademecum per il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori nelle attività di saldatura metalli” è scaricabile all’indirizzo:



MOVIMENTAZIONE MANUALE DEI CARICHI: RISCHI PER LA SALUTE E PREVENZIONE

Da: PuntoSicuro
12 settembre 2016

Un volume dedicato alle PMI e al mondo dell’artigianato riepiloga la normativa in materia di salute e sicurezza. Focus sui rischi correlati alla movimentazione manuale dei carichi: normativa, rischi per la salute, analisi del rischio e prevenzione.

Se l’attività di movimentazione manuale dei carichi è da sempre una fonte di rischio per la salute dei lavoratori, in realtà è solo con l’entrata in vigore del D.Lgs. 626/94 che il legislatore ha affrontato in modo sostanziale gli aspetti di prevenzione in materia. E con la successiva entrata in vigore, il 15 maggio 2008, del D.Lgs. 81/08 (Testo Unico in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro), il principale riferimento per la prevenzione di questi rischi è oggi costituito dagli articoli 167, 168, 169 del Titolo VI (Movimentazione manuale dei carichi) e dalle indicazioni contenute nell’allegato XXXIII del Testo Unico.

A ricordarcelo e a presentare alcune indicazioni per la prevenzione dei rischi correlati alla movimentazione manuale dei carichi è il volume “Salute e Sicurezza nelle imprese artigiane e nelle PMI: cosa occorre sapere e cosa si deve fare”, realizzato dall’Organismo Paritetico Regionale per l’Artigianato Lombardia (OPRA Lombardia) e dai vari Organismi Paritetici Territoriali Artigiani (OPTA).

Nel capitolo “I rischi per la salute dei lavoratori - La movimentazione manuale dei carichi” si segnala che il D.Lgs. 81/08 riporta l’obbligo del Datore di Lavoro di adottare le misure organizzative necessarie a ridurre il rischio, di valutare le condizioni di sicurezza e salute e di sottoporre alla sorveglianza sanitaria gli addetti alle attività di movimentazione.

Ricordiamo che l’articolo 167 del D.Lgs. 81/08 intende la movimentazione manuale dei carichi come “le operazioni di trasporto o di sostegno di un carico ad opera di uno o più lavoratori, comprese le azioni del sollevare, deporre, spingere, tirare, portare o spostare un carico, che, per le loro caratteristiche o in conseguenza delle condizioni ergonomiche sfavorevoli, comportano rischi di patologie da sovraccarico biomeccanico, in particolare dorso-lombari”.

E riguardo ai già accennati obblighi del datore di lavoro, riportiamo integralmente l’articolo 168 del medesimo Decreto:
“1. Il datore di lavoro adotta le misure organizzative necessarie e ricorre ai mezzi appropriati, in particolare attrezzature meccaniche, per evitare la necessità di una movimentazione manuale dei carichi da parte dei lavoratori.
2. Qualora non sia possibile evitare la movimentazione manuale dei carichi ad opera dei lavoratori, il datore di lavoro adotta le misure organizzative necessarie, ricorre ai mezzi appropriati e fornisce ai lavoratori stessi i mezzi adeguati, allo scopo di ridurre il rischio che comporta la movimentazione manuale di detti carichi, tenendo conto dell’Allegato XXXIII, ed in particolare:
a) organizza i posti di lavoro in modo che detta movimentazione assicuri condizioni di sicurezza e salute;
b) valuta, se possibile anche in fase di progettazione, le condizioni di sicurezza e di salute connesse al lavoro in questione tenendo conto dell’Allegato XXXIII;
c) evita o riduce i rischi, particolarmente di patologie dorso-lombari, adottando le misure adeguate, tenendo conto in particolare dei fattori individuali di rischio, delle caratteristiche dell’ambiente di lavoro e delle esigenze che tale attività comporta, in base all’Allegato XXXIII;
d) sottopone i lavoratori alla sorveglianza sanitaria di cui all’articolo 41, sulla base della valutazione del rischio e dei fattori individuali di rischio di cui all’Allegato XXXIII.
3. Le norme tecniche costituiscono criteri di riferimento per le finalità del presente articolo e dell’Allegato XXXIII, ove applicabili. Negli altri casi si può fare riferimento alle buone prassi e alle linee guida”.

Torniamo al volume realizzato da OPRA e OPTA e riportiamo alcuni quesiti e risposte.
Quali sono i rischi per la salute del lavoratore?
A questa domanda il volume risponde ricordando che il D.Lgs. 81/08 fa riferimento principalmente alle lesioni dorso lombari, citate con questa espressione in più punti della norma. Nei paesi occidentali le assenze dei lavoratori per questa causa sono infatti da 20 a 30 giorni/anno per 100 lavoratori; inoltre la patologia del rachide, indipendentemente da cause predisponenti, occupa il primo posto tra le cause di non idoneità al lavoro manuale.
Tuttavia non vanno escluse altre potenziali situazioni di danno per la salute, quali la discopatia artrosica (caratterizzata da deterioramento dei dischi intervertebrali), l’artrosi dorsale (malattia degenerativa delle placche cartilaginee che delimitano inferiormente e superiormente i corpi vertebrali), il varicocele e anche quel tipo di ernia inguinale che una volta veniva chiamata “ernia da sforzo”.

E per questa tipologia di rischio è necessaria la sorveglianza sanitaria?
Gli autori segnalano che definire con precisione in questa sede se è necessaria o meno l’attività di sorveglianza sanitaria non è possibile. E non bisogna considerare fonte di rischio per la salute del lavoratore ogni attività di movimentazione.
In particolare l’Allegato XXXIII del Testo Unico indica che un carico può costituire un rischio quando è troppo pesante, ma viene tolto il riferimento (presente nel D.Lgs. 626/94) alla soglia di 30 kg. Una modifica che può essere letta con la volontà di non escludere che la movimentazione di carichi di entità inferiore ai 30 kg possa essere fonte di rischio. Occorre quindi considerare anche quale è la frequenza di movimentazione nell’arco della giornata lavorativa tipo, se occorre effettuare movimenti di torsione del tronco, eventuali carenze di spazio, la necessità di piegarsi per raccogliere il carico, se il carico è stabile, ecc..
Insomma si indica che occorre valutare il rischio. E proprio a seguito della valutazione potrà meglio essere definita la necessità di fare ricorso alla sorveglianza sanitaria, la cui obbligatorietà, come si è cercato di spiegare, non sempre è evidente.

Ci sono Dispositivi di Protezione Individuale da adottare?
Il volume indica che spesso, non tanto per fare fronte al rischio di malattia professionale, quanto per evitare possibili infortuni, è necessario adottare l’uso di calzature antinfortunistiche.

E’ obbligatoria la formazione sulla movimentazione manuale dei carichi?
Nel volume si ricorda che l’articolo 169 del D.Lgs. 81/08 stabilisce che il Datore di Lavoro:
-         deve fornire ai lavoratori adeguate informazioni riguardo al peso e alle altre caratteristiche del carico movimentato;
-         deve assicurare ai lavoratori la formazione adeguata in relazione ai rischi lavorativi e alle modalità di corretta esecuzione delle attività.
Inoltre lo stesso articolo prevede infine che il Datore di Lavoro fornisca ai lavoratori l’addestramento adeguato in merito alle corrette manovre e procedure da adottare nella movimentazione manuale dei carichi.
Cosa si può fare per migliorare le condizioni di sicurezza?
Il capitolo si conclude ricordando che ovviamente il modo più semplice per migliorare le condizioni di salubrità è quello di fare ricorso ad attrezzature meccaniche.
E laddove ciò non risulti possibile, possono essere adottate misure organizzative (turnazione, cambiamento di mansioni anche nell’arco della giornata, ecc.) idonee a ridurre il rischio.

Si indica, infine, che diventa significativa l’attività di sorveglianza sanitaria, che consente di diagnosticare preventivamente situazioni di rischio a carico del singolo lavoratore e di monitorare nel tempo l’insorgenza di eventuali patologie e/o disturbi. Ed è inoltre utile eliminare possibili cause di disagio durante le operazioni di movimentazione (pavimenti scivolosi, zone in ombra, condizioni microclimatiche avverse, ecc.).

Il documento “Salute e Sicurezza nelle imprese artigiane e nelle PMI: cosa occorre sapere e cosa si deve fare” dell’Organismo Paritetico Regionale per l’Artigianato Lombardia del 2014 è scaricabile all’indirizzo:



IMPARARE DAGLI ERRORI: L’IMPORTANZA DI PROTEGGERE LA TESTA

Da: PuntoSicuro
15 settembre 2016
di Tiziano Menduto

Esempi di infortuni correlati all’uso errato o mancato uso di dispositivi di protezione della testa. Le conseguenze del mancato uso del casco o elmetto di protezione. La descrizione degli infortuni e la scelta di idonei DPI.

Riprendiamo il viaggio di “Imparare dagli errori”, la rubrica che PuntoSicuro dedica al racconto e all’analisi degli infortuni lavorativi, attraverso le conseguenze relative all’uso errato o mancato uso dei Dispositivi di Protezione Individuale (DPI) nei luoghi di lavoro.

Le prime cinque tappe di questo percorso hanno analizzato le varie casistiche correlate all’uso o all’assenza di occhiali di protezione e di idonei guanti per proteggere le mani.
Tuttavia c’è un’altra parte essenziale del nostro corpo che se colpita duramente porta spesso a casi mortali o lesioni gravi: la testa.

Cominciamo ad occuparci oggi proprio dei DPI per la protezione della testa ricordando che l’Allegato VIII del D.Lgs. 81/08 indica che i lavoratori esposti a specifici pericoli di offesa al capo per caduta di materiali dall’alto o per contatti con elementi comunque pericolosi devono essere provvisti di copricapo appropriato.

Le dinamiche degli infortuni presentati sono tratte dalle schede di INFOR.MO., strumento per l'analisi qualitativa dei casi di infortunio collegato al sistema di sorveglianza degli infortuni mortali e gravi.

Il primo caso riguarda un infortunio avvenuto ad un muratore durante attività edili.
Un lavoratore mentre sta raccogliendo alcune attrezzature di lavoro al di sotto di un balcone, improvvisamente viene colpito alla testa da una soglia che cade dal balcone sovrastante. Il lavoratore, che non usava il casco di protezione, riporta la frattura del cranio.
Sono evidenti i fattori causali riportati nella scheda:
-         mancato uso del casco;
-         soglia in marmo pericolante.

Il secondo caso riguarda un infortunio avvenuto ad un lavoratore straniero durante attività di ristrutturazione di un locale.
Il lavoratore si trova con due colleghi più esperti presso un locale dove si svolgono lavori per la ristrutturazione interna di un locale. Devono montare e realizzare l'impianto di refrigerazione e ricambio d'aria del locale.
Sono diversi giorni che lavorano in quel locale. E avviene che succede che il primo lavoratore, mentre si trova su di una scala a pioli del tipo a libro per prendere misure sui canali per il posizionamento di una bocchetta per la presa d'aria, perde l'equilibrio e cade a terra, sbattendo il capo nel pavimento e riportando la frattura del cranio.
Dall'indagine successiva è emerso che il lavoratore, un'apprendista che aiutava gli operai più esperti, si trovava a cavalcioni sull'ultimo piolo della scala, posizionata parallelamente alla parete, con in mano un metro a rotella. Non indossava il casco ma aveva le scarpe antiinfortunistiche.
Dall’indagine è emerso anche che la ditta aveva fornito agli operai scale e trabattelli per i lavori in quota.
Questi i fattori causali dell’incidente rilevati dalla scheda:
-         l'infortunato prima dell'evento si trovava a cavalcioni sull'ultimo piolo della scala con una mano impegnata;
-         l'infortunato non indossava il casco.

Anche il terzo caso riguarda un infortunio avvenuto durante attività edili.
Nella rimozione di un tetto di un edificio in ristrutturazione, un lavoratore cade da un impalcato alto circa 2 metri e urta il capo contro il pavimento della soletta sottostante provocandosi un trauma cranico. L'impalcato non era stato montato correttamente e non era sufficientemente esteso per tutta l'area di lavoro. Il lavoratore non faceva uso del caschetto di sicurezza che aveva ricevuto in dotazione.
In questo caso abbiamo:
un ponteggio instabile, non montato correttamente e non sufficientemente esteso per tutta l'area di lavoro;
il mancato uso del casco di sicurezza.

In questi “Imparare dagli errori” non ci soffermiamo in realtà sulle cause degli infortuni segnalati, ad esempio sulle cause delle cadute dagli impalcati, delle cadute dalle scale o del perché un operaio edile viene investito da materiale che cade dall’alto. La rubrica ha affrontato in passato tutti questi aspetti, con riferimento sia ai casi di caduta dall’alto che di caduta di materiale.

Ci soffermiamo invece sulla mancanza dell’elmetto di protezione che risulta comunque un elemento di aggravamento delle conseguenze dell’incidente e cerchiamo, attraverso alcuni materiali pubblicati in precedenti articoli, di ricordare le specificità, i limiti e le potenzialità di questo importante DPI di protezione del capo.

Per avere qualche indicazione utile per la conoscenza, la scelta e l’uso di adeguati dispositivi di protezione della testa, possiamo fare riferimento al progetto multimediale Impresa Sicura (elaborato da EBER, EBAM, Regione Marche, Regione Emilia-Romagna e INAIL) che è stato validato dalla Commissione Consultiva Permanente per la salute e la sicurezza come buona prassi nella seduta del 27 novembre 2013. Progetto che ha prodotto diversi materiali relativi alla prevenzione in molti comparti lavorativi (metalmeccanica, cantieristica navale, lavorazione del legno, calzature, ...) e una raccolta dettagliata di informazioni sui Dispositivi di Protezione Individuale nel documento “Impresa Sicura DPI”.

In quest’ultimo documento si indica che, riguardo alla protezione del capo, le norme tecniche definiscono l’elmetto di protezione per l’industria come un “‘copricapo il cui scopo primario è quello di proteggere la parte superiore della testa dell’utilizzatore contro lesioni che possono essere provocate da oggetti in caduta” (noma UNI EN 397). Mentre il copricapo antiurto per l’industria è invece destinato a “proteggere la testa dell’utilizzatore dalle lesioni causate da un urto della testa contro oggetti duri e immobili” (norma UNI EN 812).

Vi sono poi altri dispositivi di protezione del capo come:
l’elmo per Vigili del Fuoco: un copricapo destinato a “garantire la protezione della testa dell’utilizzatore dai pericoli che potrebbero insorgere durante le operazioni condotte dai Vigili del Fuoco” (norma UNI EN 443);
dispositivi di protezione del capo utilizzati per le discipline sportive e per le attività di tempo libero definiti da altre norme specifiche (ad esempio caschi per sport aerei, per sci alpino, per ciclisti, ecc.).

Rimandando ad altre puntate di “Imparare dagli errori” l’approfondimento sulle caratteristiche di elmetti e copricapi, concludiamo l’articolo riportando dal documento di “Impresa Sicura” qualche informazione riguardo alla scelta degli elmetti di protezione.

Il primo dovere del datore di lavoro è l’esecuzione di specifica valutazione, allo scopo di definire chiaramente la fonte e la natura di tutti i potenziali rischi. Una volta identificati i rischi, il requisito successivo è considerare e mettere in pratica tutte quelle misure fattibili per l’eliminazione o la riduzione del rischio alla fonte. Per proteggere il capo se il rischio non può essere eliminato o ridotto ad un livello tale da non provocare lesioni, il ricorso ad un elmetto di protezione è inevitabile ed è necessario avviare la procedura di selezione. 

Una volta individuato il DPI devono essere infine determinati i requisiti di prestazione che devono essere riportati nella nota informativa del fabbricante. Nell’ambito degli elmetti di protezione esistono una serie di prescrizioni che portano ad altrettanti requisiti di prestazione obbligatori. Al loro interno questi requisiti sono suddivisibili in funzione del loro livello di prestazione.

Il sito web di INFOR.MO., di cui nell’articolo abbiamo presentato le schede numero 3417, 3065 e 1868, è al link:

Il documento “Impresa Sicura DPI” elaborato da da EBER, EBAM, Regione Marche, Regione Emilia-Romagna e INAIL è scaricabile all’indirizzo:



Nessun commento:

Posta un commento