domenica 28 febbraio 2016

26 febbraio - Chi sono i padroni delle cooperative che operano nella Logistica






Sequestrati beni per 20 milioni al re delle coop di facchinaggio.
Dagli anni 80 Natale Sartori fa lo slalom tra inchieste di mafia e indagini fiscali. Il provvedimento del Tribunale di Milano su richiesta della Dda. Il consorzio Alma group ha avuto tra i suoi clienti anche Esselunga e Conad

Non c’è una sentenza penale di condanna, e del resto il 58enne imprenditore delle cooperative di facchinaggio Natale Sartori è quasi sempre processualmente sgusciato via dalle tante inchieste milanesi che dagli anni ’80 lo hanno lambito a fianco di latitanti di mafia come Enrico Di Grusa o nomi storici dell’album di Cosa Nostra come lo “stalliere” di Arcore, Vittorio Mangano. Ma stamattina è non un provvedimento penale, bensì una misura di prevenzione (disposta dalla competente sezione del Tribunale su richiesta della Direzione distrettuale antimafia milanese) a colpire, con un sequestro di beni del valore di circa 20 milioni di euro eseguito dalla Guardia di Finanza, l’”accumulazione patrimoniale sproporzionata rispetto alla tipologia dei redditi leciti dichiarati, verosimilmente collegata anche al reimpiego di risorse derivanti da evasione fiscale”, della galassia di cooperative ruotanti attorno alla “Alma Group”: appunto un consorzio di cooperative di facchinaggio, trasporti e logistica che tra i propri clienti ha avuto anche colossi dei supermercati come Esselunga o Conad; e che, essendo privo di personale dipendente, subappaltava il lavoro ricevuto o alle proprie consorziate o ad altre cooperative comunque riconducibili allo stesso Sartori, presso le quali c’era disponibilità di manodopera assunta con formale veste di “socio” a fronte di regolare fattura per prestazioni eseguite (documento che abbatteva l’utile e generava crediti Iva). Ma secondo gli investigatori il personale assunto in teoria come “socio lavoratore” era in realtà un vero e proprio personale dipendente, rispetto al quale Sartori “si interponeva tra il committente e il consorzio”, celandosi “dietro prestanome” di sigle di cui sarebbe stato “il reale amministratore al solo scopo di assumere cartolarmente la manodopera”. Due, in questo modo, le fonti di guadagno per il consorzio: l’inserimento in contabilità di costi fittizi per 92 milioni nel 2010-2012, e l’indebita trattenuta di 11 milioni di Iva fatturata al consorzio ma non versata, e invece drenata dai conti della galassia oppure monetizzata in assegni e prelievi di contanti. Uno schema ricostruito anche grazie ai software contabili trovati nei server dell’Alma Group e alle dichiarazioni di una dipendente della società che si occupava delle paghe dei lavoratori. Il pm Alessandra Dolci, che cura le misure di prevenzione nella Dda del procuratore aggiunto Ilda Boccassini, ha così ottenuto dal collegio Roia-Rispoli-Tallarida il sequestro non del capitale sociale della “Alma Group” (richiesta qui rigettata), ma degli immobili di “Alma Group”, di Sartori e dei suoi familiari, e di altri immobili a Padova, Desenzano sul Garda, Valtournanche, Peschiera Borromeo e San Vittore Olona, e terreni a Settala. E’ l’ennesimo guaio giudiziario con il quale Sartori si ritrova a confrontarsi. Già a metà anni ’80, infatti, viene indagato per associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga sulla base di dichiarazioni del collaboratore di giustizia Rosario Spatola, ma il Tribunale di Milano lo assolve, definendole “generiche e indirette, quindi non riscontrabili”. Nel 1998 un altro collaboratore, Vincenzo La Piana, parla di Sartori come di un sostenitore delle spese di carcerazione di Vittorio Mangano (lo “stalliere di Arcore” legato a Marcello Dell’Utri) e come appoggio della latitanza del genero di Mangano, Enrico Di Grusa, che effettivamente verrà catturato a Rozzano in un capannone di una cooperativa di un consorzio presieduto da Sartori, perciò arrestato nel 1999. Ma alla fine di un’altalena di processi, quando le intercettazioni vengono dichiarate inutilizzabili, Sartori è assolto dal favoreggiamento del latitante, limitando a 1 anno e 8 mesi la condanna per corruzione di un tenente colonnello dei carabinieri pagato per “raccomandare” il consorzio di facchinaggio di Sartori. Non l’unico contatto di alto livello di Sartori, visto che nel 1998 anche l’allora colonnello della GdF Michele Adinolfi (poi comandante in seconda della Guardia di Finanza, nel 2015 suo malgrado alle cronache per le intercettazioni 2014 con il premier Matteo Renzi) entrò nel radar delle indagini a causa dell’agitazione di Sartori per una verifica fiscale in una sua società. Curiosamente già nella sentenza di assoluzione in Appello di Sartori dal favoreggiamento del latitante Di Grusa si indicava “pacificamente acclarato il nero nella misura di 64 miliardi di lire”, creato con “una doppia contabilità e l’assenza di fatturazione”, ma senza però che ad avviso dei giudici fosse stata “superata quella linea di confine sottile che separa il mafioso da chi mafioso, giudizialmente in senso tecnico e non metagiuridico, non può essere ancora ritenuto”. Questo versante fiscale produce nel 2001 un procedimento che finisce però in archiviazione nel 2008, in parte perché alcuni reati vengono ritenuti già giudicati nel processo principale, e in parte perché “gli altri reati sono prescritti”. In compenso Equitalia Nord spa contesta al consorzio “Cisa” di Sartori un debito di 25 milioni di euro verso l’Erario. Nel 2008 altra indagine su Sartori, stavolta perché per gli inquirenti, una volta liquidato il consorzio Cisa, nel 2003 aveva costituito la “Alma Group Società Consortile” a Peschiera Borromeo, “in sostanza – scrivevano i magistrati – un clone di quello che era la Cisa prima dell’arresto, ossia un collettore a cui aderiscono svariate singole cooperative di servizi”: ma mentre i suoi coindagati vengono arrestati, Sartori alla fine è archiviato. Nel 2013 è invece il Nucleo di Polizia Valutaria della GdF a produrre gli atti sulla cui base Sartori viene arrestato dal 27 ottobre 2014 al 7 aprile 2015 per associazione a delinquere finalizzata a reati fiscali, e finisce destinatario di un sequestro preventivo di beni fino a un massimo di 31 milioni di euro. Una delle fonti di acquisizioni investigative utilizzate ora dal diverso strumento della misura di prevenzione.
Tratto da: Corriere della Sera


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