mercoledì 13 gennaio 2016

13 gennaio - SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! NEWSLETTER N. 239 DEL 13/01/16



NEWSLETTER PER LA TUTELA DELLA SALUTE
E DELLA SICUREZZA DEI LAVORATORI
(a cura di Marco Spezia - sp-mail@libero.it)

INDICE

LE “FREQUENTLY ASKED QUESTIONS” DI SICUREZZA SUL LAVORO - KNOW YOUR RIGHTS! - N.8
1
AUMENTO DELL’ETA’ PENSIONABILE: UNA QUESTIONE DI VITA O DI MORTE
6
LA GESTIONE DELLA SICUREZZA NEGLI APPALTI
8
SCEGLIERE I DISPOSITIVI DI PROTEZIONE DEI PIEDI PIU’ IDONEI
10
LE CONSEGUENZE DELLA NORMATIVA SULLE MALATTIE PROFESSIONALI
13
I RISCHI ORGANIZZATIVI E PSICOSOCIALI NELLE STRUTTURE OSPEDALIERE
15


LE “FREQUENTLY ASKED QUESTIONS” DI SICUREZZA SUL LAVORO - KNOW YOUR RIGHTS! - N.8

Nella mia attività di diffusione della cultura della salute e sicurezza sul lavoro, spesso sono chiamato, da lavoratori o associazioni sindacali di base, a svolgere delle vere e proprie “consulenze” (ovviamente del tutto gratuite) di ampio respiro, che poi riporto, per condividere l’esperienza con tutti, nella mia newsletter, nella rubrica “Le consulenze di Sicurezza sul Lavoro – Know Your Rights!”.
In qualche caso invece le richieste che mi pervengono non richiedono consulenze di ampio respiro, ma brevi e sintetiche risposte a domande su temi molto specifici e limitati.
Anche in questo caso mi sembra giusto e doveroso diffondere questi brevi consulenze che hanno la forma delle cosiddette “Frequently Asked Questions”, facendo nascere su tale argomento una nuova rubrica della mia newsletter.
Ovviamente, per evidenti motivi di privacy e per non creare motivi di ritorsione verso i lavoratori o le associazioni che le hanno poste, riportando le domande ometto il nominativo del lavoratore e dell’azienda coinvolti.

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DOMANDA
Buongiorno,
una domanda: ieri sono andata a prendere il registro degli infortuni da gennaio a ora (tantissimi) che servono per la relazione di fine anno e mi è stato detto che non possono darmi la copia ma li devo trascrivere.
E’ possibile questo?
Ci vogliono dieci ore a trascrivere tutto.
Mi fai sapere?
Grazie.

RISPOSTA
Ciao Adriana,
sollevi un problema spinoso, che è stato oggetto da tempo di dibattito senza arrivare ancora a una risoluzione legislativamente definitiva.
Partiamo dal D.Lgs.81/08 che afferma all’articolo 18, comma 1, lettera o) (obblighi sanzionabili a carico del datore di lavoro e dei dirigenti):
Il datore di lavoro [...], e i dirigenti [...] devono consegnare tempestivamente al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, su richiesta di questi e per l’espletamento della sua funzione, copia del documento di cui all’articolo 17, comma 1, lettera a) [documento di valutazione dei rischi], anche su supporto informatico come previsto dall’articolo 53, comma 5, nonché consentire al medesimo rappresentante di accedere ai dati di cui alla lettera r); il documento è consultato esclusivamente in azienda”.
La lettera r) a cui fa riferimento la lettera o) afferma poi che:
Il datore di lavoro [...], e i dirigenti [...] devono comunicare in via telematica all’INAIL [...] i dati e le informazioni relativi agli infortuni sul lavoro che comportino l’assenza dal lavoro di almeno un giorno, escluso quello dell’evento e, a fini assicurativi, quelli relativi agli infortuni sul lavoro che comportino un’assenza dal lavoro superiore a tre giorni [...]”.
L’articolo 50, comma 1, lettera e) del medesimo Decreto (attribuzioni dei RLS) afferma poi che:
Fatto salvo quanto stabilito in sede di contrattazione collettiva, il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza riceve le informazioni e la documentazione aziendale inerente alla valutazione dei rischi e le misure di prevenzione relative, nonché quelle inerenti alle sostanze ed ai preparati pericolosi, alle macchine, agli impianti, alla organizzazione e agli ambienti di lavoro, agli infortuni ed alle malattie professionali”.
Quindi, secondo il Decreto, è evidente che il RLS debba ricevere la documentazione aziendale relativa a salute e sicurezza, tra cui il registro infortuni.
Il problema si pone sulle modalità di consegna, in quanto il citato articolo 18, comma 1, lettera o), relativamente al documento di valutazione dei rischi, ma la cui “ratio” si può estendere al resto della documentazione da consegnare al RLS, afferma che “il documento è consultato esclusivamente in azienda”.
Cosa significhi nella pratica ciò non è stato ancora specificato, in modo univoco in sede legislativa.
Non è stato quindi ancora specificato se consegna e la consultazione prevede solo la mera disponibilità dei documenti in azienda senza però che essi possano essere fotocopiati o portati fuori della azienda, oppure se sussiste quest’ultima possibilità.
La Commissione interpelli (Interpello in materia di sicurezza n.52 del 19 dicembre 2008) alla specifica domanda riguardante la “possibilità di consegna al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza del documento di valutazione dei rischi unicamente su supporto informatico ha dato la seguente risposta:
Non essendo prevista alcuna formalità per la consegna del documento, l’adempimento all’obbligo di legge è comunque garantito mediante consegna dello stesso su supporto informatico, anche se utilizzabile solo su terminale video messo a disposizione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza giacché tale modalità, consentendo la disponibilità del documento in qualsiasi momento ed in qualsiasi area all’interno dei locali aziendali, non pregiudica lo svolgimento effettivo delle funzioni del RLS”.
Che sinceramente non chiarisce molto la questione, anche se afferma la necessità della “disponibilità del documento in qualsiasi momento ed in qualsiasi area all’interno dei locali aziendali”.
Più chiarificatrice (e decisamente più orientata a una garanzia reale delle attribuzioni del RLS) è la Sentenza del 29 gennaio 2010 della Sezione Lavoro del Tribunale Ordinario di Milano che a tale proposito ha affermato che:
Ad ogni modo, poiché il ruolo del RLS all’interno dell’azienda è posto a presidio e controllo della salvaguardia di intessi di primaria importanza, quali sono quelli relativi alla salute dei lavoratori ne deriva che il datore di lavoro dovrà consentire al RLS la consultazione del DVR per tutto il tempo che sarà necessario, tenuto conto della eventuale complessità del documento stesso. Non è dunque controvertibile il fatto che il datore di lavoro abbia l’obbligo di consegna del DVR al RLS; ciò che è cambiato è la possibilità alternativa per il RLS di richiedere in quale forma preferisca consultare il documento stesso”.
Al di là dell’affermazione di cui sopra, tale Sentenza ha valore particolarmente significativo poiché conferma il decreto ingiuntivo con cui il RLS aziendale aveva chiesto di poter consultare il DVR al di fuori della azienda e quindi, eventualmente di fotocopiarlo.
In conclusione, io mi rifarei a quest’ultima Sentenza (che però non sono sicuro che sia passata in giudicato), chiedendo alla tua azienda di poter consultare il Registro infortuni anche al di fuori dell’azienda oppure di fotocopiarlo.
Attenzione però che grazie al Governo Renzi, a seguito dei Decreti attuativi del Jobs Act decade l’obbligo di tenuta del Registro infortuni, in quanto uno di tali Decreti ha modificato l’articolo 53, comma 6 del D.Lgs.81/08 (tenuta delle documentazione) abrogando il periodo relativo alla tenuta del Registro infortuni.
Va osservato che l’abolizione del registro infortuni non esime il datore di lavoro e i dirigenti delle aziende di dotarsi di uno strumento di monitoraggio del fenomeno infortunistico, in quanto rimangono invariati l’articolo 18, comma 1, lettera r) (comunicazione in via telematica all’INAIL delle informazioni sugli infortuni che comportano l’assenza di almeno un giorno escluso quello dell’infortunio) e 35, comma 2, lettera b) (esame nell’ambito della riunione annuale del fenomeno infortunistico) del D.Lgs.81/08.
A tua disposizione per ulteriori chiarimenti.
Marco

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DOMANDA
Ciao,
nel mio ufficio (Poste) hanno fatto dei lavori edili per nuovi servizi, riducendo lo spazio per noi portalettere.
A me pare che esista uno spazio previsto, ma non ne sono sicuro.
Forse varia da lavoro a lavoro...

RISPOSTA
Ciao,
le dimensioni minime degli ambienti di lavoro a livello generale sono definite dal D.Lgs.81/08 (Decreto).
Il loro rispetto costituisce un obbligo sanzionabile a carico del datore di lavoro.
L’articolo 64, comma 1, lettera a) del Decreto impone infatti che:
Il datore di lavoro provvede affinché i luoghi di lavoro siano conformi ai requisiti di cui all’articolo 63, commi 1, 2 e 3”.
In particolare l’articolo 63, comma 1 impone poi che
I luoghi di lavoro devono essere conformi ai requisiti indicati nell’allegato IV”.
Il mancato adempimento dei contenuti dell’allegato IV del Decreto e, di conseguenza, dell’articolo 64, comma 1 è sanzionato per datore di lavoro e dirigenti dall’articolo 68, comma 1, lettera b) del Decreto con l’arresto da due a quattro mesi o con l’ammenda da 1.000 a 4.800 euro.
In merito agli spazi minimi degli ambienti di lavoro il punto 1.2 dell’allegato IV del Decreto, che riporto per intero, stabilisce che:
1.2. ALTEZZA, CUBATURA E SUPERFICIE
1.2.1. I limiti minimi per altezza, cubatura e superficie dei locali chiusi destinati o da destinarsi al lavoro nelle aziende industriali che occupano più di cinque lavoratori, ed in ogni caso in quelle che eseguono le lavorazioni che comportano la sorveglianza sanitaria, sono i seguenti:
1.2.1.1. altezza netta non inferiore a 3 metri;
1.2.1.2. cubatura non inferiore a 10 metri cubi per lavoratore;
1.2.1.3. ogni lavoratore occupato in ciascun ambiente deve disporre di una superficie di almeno 2 metri quadri.
1.2.2. I valori relativi alla cubatura e alla superficie si intendono lordi cioè senza deduzione dei mobili, macchine ed impianti fissi.
1.2.3. L’altezza netta dei locali è misurata dal pavimento all’altezza media della copertura dei soffitti o delle volte.
1.2.4. Quando necessità tecniche aziendali lo richiedono, l’organo di vigilanza competente per territorio può consentire altezze minime inferiori a quelle sopra indicate e prescrivere che siano adottati adeguati mezzi di ventilazione dell’ambiente. L’osservanza dei limiti stabiliti dal presente articolo circa l’altezza, la cubatura e la superficie dei locali chiusi di lavoro è estesa anche alle aziende industriali che occupano meno di cinque lavoratori quando le lavorazioni che in esse si svolgono siano ritenute, a giudizio dell’organo di vigilanza, pregiudizievoli alla salute dei lavoratori occupati.
1.2.5. Per i locali destinati o da destinarsi a uffici, indipendentemente dal tipo di azienda, e per quelli delle aziende commerciali, i limiti di altezza sono quelli individuati dalla normativa urbanistica vigente.
1.2.6. Lo spazio destinato al lavoratore nel posto di lavoro deve essere tale da consentire il normale movimento della persona in relazione al lavoro da compiere”.
Il punto 1.2.1 specifica che tali limiti sono validi “per aziende industriali che occupano più di cinque lavoratori, ed in ogni caso in quelle che eseguono le lavorazioni che comportano la sorveglianza sanitaria”. Pertanto visto che le Poste non sono aziende industriali, essi si applicano solo nel caso in cui siate sottoposti a sorveglianza sanitaria, anche in merito all’utilizzo dei videoterminali.
Negli altri casi (aziende non industriali e senza sorveglianza sanitaria, si applicano le prescrizioni impartite dai regolamenti urbanistici locali (punto 1.2.5).
In ogni caso gli spazi di lavoro devono essere tali da consentire piena libertà di movimento ai lavoratori (punto 1.2.6).
Immagino che i lavori di ristrutturazione siano stati svolti a seguito di progetto realizzato da professionista e che sia stata richiesta autorizzazione a costruire al Comune competente.
Pertanto ritengo che i limiti imposti dai regolamenti edilizi siano stati rispettati.
Provate però a fare una verifica in tal senso.
A disposizione per ulteriori chiarimenti.
Marco

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DOMANDA
Salve,
nella nostra azienda si sta valutando la possibilità di introdurre il lavoro notturno per la gestione della centrale termica (attualmente affidata in appalto).
Le volevo chiedere se per cortesia mi può far sapere quali sono gli enti competenti che si occupano delle normative vigenti per la conduzione del lavoro notturno, in modo da poterli interpellare e avere delucidazioni in merito.
Grazie.
Saluti.

RISPOSTA
Ciao,
per tutto quanto attiene alla normativa di sicurezza sul lavoro (cioè le norme contenute all’interno del D.Lgs.81/08 “Testo Unico” sulla sicurezza) l’organismo pubblico di controllo è il settore Prevenzione Salute e Sicurezza sui Luoghi di Lavoro della ASL competente per territorio, i cui ispettori sono Ufficiali di Polizia Giudiziaria.
Per quanto invece attiene al rispetto della normativa sull’orario di lavoro (il D.Lgs.66/03) il controllo spetta all’Ispettorato del Lavoro competente per territorio, i cui ispettori sono pure Ufficiali di Polizia Giudiziaria.
Poiché le modifiche organizzative che intende adottare la tua azienda impattano su entrambi gli aspetti, io farei ricorso a entrambi gli Enti.
Tieni presente che, trattandosi di modifiche organizzative che toccano pesantemente gli aspetti di salute e sicurezza dei lavoratori, la tua azienda è obbligata a modificare il documento di valutazione dei rischi, analizzando cosa comporta la modifica relativamente ai rischi per la salute e la sicurezza e definendo misure di prevenzione e protezione per eliminare o ridurre l’aumento del rischio.
Il riferimento normativo è l’articolo 29, comma 3 del D.Lgs.81/08 che stabilisce che:
La valutazione dei rischi deve essere immediatamente rielaborata, nel rispetto delle modalità di cui ai commi 1 e 2, in occasione di modifiche del processo produttivo o della organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori, o in relazione al grado di evoluzione della tecnica, della prevenzione o della protezione o a seguito di infortuni significativi o quando i risultati della sorveglianza sanitaria ne evidenzino la necessità. A seguito di tale rielaborazione, le misure di prevenzione debbono essere aggiornate. Nelle ipotesi di cui ai periodi che precedono il documento di valutazione dei rischi deve essere rielaborato, nel rispetto delle modalità di cui ai commi 1 e 2, nel termine di trenta giorni dalle rispettive causali. Anche in caso di rielaborazione della valutazione dei rischi, il datore di lavoro deve comunque dare immediata evidenza, attraverso idonea documentazione, dell’aggiornamento delle misure di prevenzione e immediata comunicazione al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. A tale documentazione accede, su richiesta, il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza”.
Ovviamente nella modifica del documento di valutazione dei rischi deve essere coinvolto, come specificato esplicitamente nel dettato normativo di cui sopra anche il Rappresentate dei Lavoratori per la Sicurezza.
A disposizione per ulteriori chiarimenti.
Un caro saluto.
Marco

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DOMANDA
Ciao Marco,
ho visto sulla tua Newsletter l’articolo “Visite mediche a seguito di assenza lunga malattia” e avrei bisogno di un chiarimento su tale aspetto.
Mia moglie è stata in malattia più di 60 giorni per una frattura al polso sinistro per una caduta accidentale in un giorno festivo.
Mia moglie rientra lunedì prossimo, per cui volevo avere una dritta sulla procedura.
Non vorrei che il lunedì, non essendoci il medico competente in azienda, la rimandino a casa senza essere retribuita e con proprie ferie.
Grazie, ciao.

RISPOSTA
Ciao,
la visita medica a seguito di lunga assenza dal lavoro per motivi di salute è regolamentata dall’articolo 41, comma 2, lettera e-ter), che stabilisce che:
La sorveglianza sanitaria comprende [...] visita medica precedente alla ripresa del lavoro, a seguito di assenza per motivi di salute di durata superiore ai sessanta giorni continuativi, al fine di verificare l’idoneità alla mansione”.
La “ratio” del disposto legislativo è quella di stabilire se un lavoratore a seguito di una lunga assenza per motivi di salute (a seguito di malattia o di infortunio) sia ancora idoneo fisicamente a svolgere il lavoro specifico della sua mansione.
E’ compito del medico competente stabilire se la lunga assenza dal lavoro e la patologia che l’ha causata possano avere annullato o ridotto la idoneità del lavoratore a svolgere i compiti lavorativi propri della sua mansione, a fronte dei rischi specifici della mansione stessa.
Mi spiego con due esempi.
Se un videoterminalista (che svolge la sua mansione in un ambiente climaticamente adeguato, cioè con adeguato impianto di riscaldamento) manca per più di 60 giorni per una polmonite, il medico competente non potrà che, una volta acquisiti i referti medici relativi alla malattia, confermare l’idoneità del lavoratore alla sua mansione specifica che non comporta (a seguite della adeguata climatizzazione degli ambienti di lavoro) rischi di natura climatica fredda.
Se, al contrario, un addetto al magazzino (che svolge la sua mansione con ripetuti sollevamenti di carichi pesanti) manca per più di 60 giorni per un’ ernia discale, il medico competente dovrà, una volta acquisiti i referti medici relativi alla malattia, verificare se lo stato di salute del lavoratore sia già in grado di riprendere un’attività lavorativa potenzialmente a rischio per la colonna vertebrale interessata dalla patologia, esprimendo, in alternativa un giudizio di non idoneità totale, oppure di idoneità totale, oppure ancora di idoneità con prescrizione (non sollevare più di...kg).
Pertanto non ci sono regole assolute, ma solo relative alla patologia subita e alla mansione svolta.
E questo lo può stabilire solo il medico competente.
A disposizione per ulteriori chiarimenti.
Un caro saluto.
Marco

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NOTA
Nel testo delle “Frequently Asked Questions” sopra riportate sono state usati i seguenti acronimi e termini:
ASL = Azienda Sanitaria Locale
CCNL = Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro
DPI = Dispositivi di Protezione Individuali
DVR = Documento di Valutazione dei Rischi
DUVRI = Documento Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenza in caso di lavori in appalto
RSPP = Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione
RLS = Rappresentate dei Lavoratori per la Sicurezza
D.Lgs.81/08 o Decreto: Decreto Legislativo n.81 del 9 aprile 2008 e successive modifiche e integrazioni (cosiddetto “Testo Unico sulla sicurezza”)



AUMENTO DELL’ETA’ PENSIONABILE: UNA QUESTIONE DI VITA O DI MORTE

Da La Città Futura

8 Gennaio 2016
di Carmine Tomeo

Sotto il governo guidato dal segretario del PD, Matteo Renzi aumenta ancora l’età pensionabile.
Si dirà che questo è l’effetto della riforma Fornero. Ma quella riforma era nata con il cosiddetto governo tecnico di Mario Monti, sostenuto anche dal PD. E soprattutto, PD e alleati di centrodestra quella riforma non si sono mai sognati di modificarla. D’altronde, l’attuale Presidente del Consiglio è quello che nel 2013, poche settimane prima di assumere l’incarico di segretario del PD e a pochi mesi dall’inizio del suo mandato, senza titubanze affermava che “è naturale in un Paese che vive 20 anni in più rispetto al passato che si lavori qualche anno in più”.
Il risultato? In Italia aumentano i morti come fossimo in guerra. Il bilancio demografico dell’ISTAT mostra un aumento del numero di decessi nel 2015 di 68.000 unità in più rispetto al 2014, che trova ordini di grandezza comparabili, appunto, solo con gli anni di guerra.

Detto, fatto.
Da quest’anno si dovrà lavorare 4 mesi in più prima di poter andare in pensione. In questo modo, gli uomini, siano essi dipendenti o lavoratori autonomi, potranno andare in pensione all’età di 66 anni e 7 mesi, le donne, a 65 anni e 7 mesi per le lavoratrici del settore privato e a 66 anni e un mese per le lavoratrici autonome.

Provate a immaginare un uomo quasi settantenne su un ponteggio a mettere su mattoni o a spostare sacchi di cemento; oppure una donna ultrasessantenne costretta otto ore in piedi, assumere posizioni anche scomode per assemblare pezzi in serie ripetendo freneticamente la stessa operazione centinaia di volte al giorno.
Provate ad immaginare un’infermiera a 65 anni sollevare di peso e accudire pazienti anche più pesanti di lei; oppure un autotrasportatore di 66 anni costretto a lunghi ed estenuanti viaggi per consegnare merci qua e là lungo la Penisola e oltre.

Nel libro-intervista “La lotta di classe, dopo la lotta di classe”, Luciano Gallino spiegava che “La fatica non uccide sul colpo, ma peggiora la vita e l’accorcia”.
Il sociologo torinese affermava, dati alla mano, che la fatica da lavoro spiega un accorciamento della speranza di vita: “L’esistenza di forti disuguaglianze nella speranza di vita a danno delle persone che arrivano alla pensione da carriere di lavoro subordinato con basso reddito e modesta posizione sociale è ampiamente documentata nella letteratura internazionale”.
Si arriva quindi a “una inaccettabile redistribuzione di risorse a scapito delle persone che arrivano alla pensione da carriere di lavoro subordinato con basso reddito e modesta posizione sociale, risorse che vengono riversate sui gruppi sociali più avvantaggiati”, affermava Gallino.
E questo è un chiaro “indicatore di classe”.

Ecco, vista così, non è poi così naturale, come afferma Renzi, andare in pensione più tardi, mentre è palese l’attacco padronale contro quelle classi sociali più deboli fatte di persone che per il lavoro che svolgono vedono accorciata la loro speranza di vita; e che sono costrette a condizioni di vita, durante gli anni della pensione, sempre più drammatiche.
Dopo anni vissuti a lavorare subendo carichi e ritmi di lavoro sempre più intensi, i pensionati si ritrovano con schiene affaticate, braccia doloranti, malattie professionali. E con una pensione che troppo spesso non permette l’accesso alle cure mediche.
L’ultimo rapporto INPS (2014) mostra che quasi 5 milioni e mezzo di pensionati per vecchiaia percepisce mediamente poco più di 700 euro al mese. Soldi che spesso non sono sufficienti nemmeno per una vita dignitosa, specie con i tagli alla spesa sociale che sistematicamente e con cinismo vengono portati avanti da governi filo padronali.

Il risultato? Come detto, in Italia aumentano i morti come fossimo in guerra.
E’ presto per spiegare compiutamente il fenomeno, ma Gian Carlo Blangiardo, docente di demografia presso l’Università di Milano Bicocca, lancia un allarme. Secondo il professor Blangiardo, la rilevazione dell’ISTAT deve essere consegnata “alla riflessione sia del mondo scientifico, sia di quello della politica, della pubblica amministrazione e del welfare”. Siamo infatti di fronte ad “un evento straordinario che richiama alla memoria l’aumento della mortalità nei Paesi dell’Est Europa nel passaggio dal comunismo all’economia di mercato: un déjà vu che non vorremmo certo rivivere”.
Quell’economia di mercato la cui logica trova applicazione nei provvedimenti di governi nazionali come quello italiano che applicano servilmente i memorandum della troika. Provvedimenti che si traducono in tagli anche a settori essenziali come la sanità pubblica. Una politica, ricorda ancora Blangiardo, che “può avere effetti molto pesanti sul già fragile sistema demografico”.

Un altro dato dovrebbe fare riflettere chi, come Renzi, sostiene che è naturale aumentare l’età pensionabile: i morti sul lavoro.
Fino a tutto il mese di ottobre del 2015, sono stati denunciati 185 infortuni con esito mortale di lavoratori tra i 55 e i 64 anni e 79 di lavoratori di oltre 65 anni di età. Questo dato, in rapporto agli occupati delle stesse classi di età, si traduce con la macabra statistica di 7 morti ogni 100.000 lavoratori nella fascia di età tra i 55 ed i 64 anni e di 21 morti sul lavoro ogni 100.000 lavoratori che, compiuti 65 anni, anziché godersi una meritata pensione, la mattina si alzano per andare al lavoro.
La statistica fredda e spietata mostra che i lavoratori con più di 64 anni di età sono vittime di infortuni mortali con una frequenza maggiore di 5 volte rispetto a chi ha non più di 54 anni e addirittura 23 volte rispetto a lavoratori che hanno un’età compresa tra i 25 ed i 34 anni.
E siamo di fronte a cifre che sono confermate anno dopo anno e che sarebbero anche peggiori se non ci fermassimo a leggere i dati ufficiali dell’INAIL, visto che questi riguardano solo i lavoratori assicurati a quell’ente. Ma ciò dimostra il fatto che costringere al lavoro persone in età avanzata significa esporre cinicamente i lavoratori al serio rischio di abbandonare il posto di lavoro stesi dentro una bara.

E’ in un quadro così macabro che il governo guidato dal segretario del PD permette ancora l’innalzamento dell’età pensionabile.
C’è di che riflettere.
Soprattutto, c’è da incazzarsi e da cominciare ad organizzare una seria di risposta all’attacco di classe del padronato e dei governi suoi amici. E’ proprio il caso di dire che è una questione di vita o di morte.



LA GESTIONE DELLA SICUREZZA NEGLI APPALTI

Da FILCAMS CGIL Lombardia

Nella FILCAMS è un tema spesso sottovalutato dagli stessi lavoratori e delegati e di conseguenza anche dai funzionari, troppo impegnati nell’affrontare la quotidianità fatta di riduzioni di ore, mancati pagamenti continui cambi di datori di lavoro.

Per questo abbiamo tenuto il 9 dicembre 2015 a Milano un momento di studio e approfondimento sul tema insieme alla dottoressa Tiziana Vai dell’ASL città di Milano.

Vogliamo qui focalizzare l’attenzione di tutti su un tema su cui varrebbe la pena di intervenire.

Il D.Lgs.81/08 affronta il tema degli appalti nell’articolo 26, articolo poco letto e ancor meno utilizzato da RSA, RLS e funzionari sindacali.
Ora senza voler elencare tutti quelli che sono gli obblighi del committente in materia di sicurezza, vorremmo che i RLS degli appalti, ma anche i funzionari che seguono il settore iniziassero a esigere dal committente quanto previsto dal comma 3 del citato articolo 26 del D.Lgs.81/08:
“Il datore di lavoro committente promuove la cooperazione e il coordinamento di cui al comma 2, elaborando un unico documento di valutazione dei rischi che indichi le misure adottate per eliminare o, ove ciò non è possibile, ridurre al minimo i rischi da interferenze ovvero individuando, limitatamente ai settori di attività a basso rischio d’infortuni e malattie professionali di cui all’articolo 29, comma 6-ter, con riferimento sia all’attività del datore di lavoro committente sia alle attività dell’impresa appaltatrice e dei lavoratori autonomi, un proprio incaricato, in possesso di formazione, esperienza e competenza professionali, adeguate e specifiche in relazione all’incarico conferito, nonché di periodico aggiornamento e di conoscenza diretta dell’ambiente di lavoro, per sovrintendere a tali cooperazione e coordinamento. In caso di redazione del documento esso è allegato al contratto di appalto o di opera e deve essere adeguato in funzione dell’evoluzione dei lavori, servizi e forniture. A tali dati accedono il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e gli organismi locali delle organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative a livello nazionale [...]”.

A seguire trovate un modulo di richiesta di tali dati.

Vi ricordiamoo ulteriori obblighi che riguardano le aziende che si sono dotate di un “modello organizzativo di gestione idoneo ad avere attività esimente della responsabilità amministrativa” (ai sensi del D.Lgs.231/01).

L’applicazione del modello di organizzazione e gestione di cui all’articolo 30 del D.Lgs.81/08 prevede tra l’altro l’adempimento di tutti gli obblighi giuridici relativi:
-         alle attività di vigilanza con riferimento al rispetto delle procedure e delle istruzioni di lavoro in sicurezza da parte dei lavoratori (lettera f);
-         alla acquisizione di documentazioni e certificazioni obbligatorie per legge (lettera g);
-         alle periodiche verifiche dell’applicazione e dell’efficacia delle procedure adottate lettera h).

Le slides dell’intervento tenuto dalla dottoressa Tiziana Vai dell’ASL città di Milano, sono visionabili all’indirizzo:

* * * * *

MODULO RELATIVO ALLA RICHIESTA DI INFORMAZIONI PER LAVORAZIONI AFFIDATE IN APPALTO

Al Datore di Lavoro dell’azienda appaltante
Al Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione dell’azienda appaltante

OGGETTO: RICHIESTA DOCUMENTAZIONE DI CUI COMMI 3 E 5 DELL’ARTICOLO 26, COMMA 3 DEL D.LGS 81/08

Con la presente la scrivente Organizzazione Sindacale / lo scrivente Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza dell’azienda ________________ (appaltata) richiede ai sensi della normativa in oggetto di ricevere copia del Documento Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenza (DUVRI ex articolo 26, comma 3 del D.Lgs.81/08) da voi predisposto, in quanto committente, dell’appalto ___________ per lavorazioni da eseguire negli ambienti di lavoro della Vostra azienda e affidato alla azienda ________________ (appaltata).

Si richiede altresì di conoscere i dati relativi a “i costi delle misure adottate per eliminare o, ove ciò non sia possibile, ridurre al minimo i rischi in materia di salute e sicurezza sul lavoro derivanti dalle interferenze delle lavorazioni” così come previsto dal comma 5 dello stesso articolo 26.

In attesa di un vostro sollecito riscontro, vi inviamo i nostri distinti saluti.

Luogo e data


SCEGLIERE I DISPOSITIVI DI PROTEZIONE DEI PIEDI PIU’ IDONEI

Da: PuntoSicuro
29 dicembre 2015
di Tiziano Menduto

Informazioni sui dispositivi di protezione dei piedi e sulle calzature antinfortunistiche. I requisiti e le caratteristiche dei DPI, la classificazione, le protezioni particolari per attività specifiche e i fattori da valutare per la scelta.

In molte attività lavorative i piedi devono essere protetti da idonei Dispositivi di Protezione Individuali (DPI) in relazione a diverse tipologie di rischio.
Ad esempio rischi meccanici (schiacciamento, scivolamento, urti, tagli, ecc.), rischi chimici e biologici (dello sversamento di prodotti chimici, contatto con materiali biologici, ecc.), rischi fisici (umidità, acqua, temperatura, cariche elettrostatiche, ecc.).

Per parlare di calzature antinfortunistiche, di scarpe di sicurezza, ci soffermiamo oggi sul contenuto del progetto multimediale Impresa Sicura (un progetto elaborato da Ente Bilaterale Emilia Romagna, Ente Bilaterale Marche, Regione Emilia Romagna, Regione Marche e INAIL) che è stato validato dalla Commissione Consultiva Permanente per la salute e la sicurezza come “Buona prassi” nella seduta del 27 novembre 2013.

Il documento “Impresa Sicura DPI”, correlato al progetto, presenta anche la struttura interna ed esterna delle calzature di sicurezza e ricorda che per evitare la contaminazione delle scarpe o degli stivali da materiale chimico o biologico, è possibile anche l’utilizzo di sovrascarpe/sovrastivali monouso, antiscivolo e antistatici, generalmente dotati di elastico o di lacci da legare sopra la tuta alla caviglia o al polpaccio.
In commercio si trovano anche sovrascarpe/sovrastivali di protezione contro altri rischi quali il calore, il freddo. Inoltre quando è necessario proteggere i polpacci si utilizzano stivali, ma anche ghette. Le ghette, a differenza degli stivali, sono un accessorio costituito solo dal gambale che ha il vantaggio di poter essere indossato e tolto senza coinvolgere la calzatura e quindi può essere utilizzato solo quando serve.

I requisiti richiesti per le calzature antinfortunistiche sono relativi alla sicurezza, alla salute, al comfort e all’estetica.
Queste sono alcune possibili caratteristiche relative alla salute e sicurezza:
-         tomaia resistente allo strappo e alla flessione;
-         fodere resistenti allo strappo e all’abrasione;
-         suola resistente all’abrasione, alle flessioni, all’idrolisi, agli idrocarburi;
-         resistenza al distacco della tomaia/suola;
-         resistenza alla corrosione dei puntali metallici;
-         protezione da rischio di scivolamento;
-         resistenza del battistrada agli oli minerali;
-         protezione delle dita del piede con puntale in acciaio resistente all’impatto fino a 200 Joule.

Le calzature antinfortunistiche si differenziano poi in relazione alle esigenze specifiche di utilizzo e alle caratteristiche corrispondenti richieste.
E dunque la scelta del corretto dispositivo di protezione dei piedi dipende dalla mansione del lavoratore, dalle caratteristiche delle stesse e dai rischi presenti nei luoghi di utilizzo.
Sono infatti disponibili calzature di materiale diverso e con caratteristiche diverse, quindi il termine generico “calzature antinfortunistiche” non è indicativo della esclusività del dispositivo di protezione.

In particolare si suddividono in due classi principali, in base al materiale del corpo della calzatura:
-         Tipo I: calzature di cuoio o altri materiali, escluse le calzature interamente in gomma o in polimero;
-         Tipo II: calzature interamente in gomma o in polimero.

Le classi I e II si possono poi distinguere in 3 categorie (di sicurezza, di protezione, da lavoro, cui corrispondono le sigle S, P, O derivanti dalle definizioni in inglese) in base alle caratteristiche di protezione, definite da norme tecniche separate: la differenza fra i tre tipi è data, in sostanza, dal diverso grado di protezione del puntale (assente in quelle da lavoro e in grado invece di assorbire la caduta di un peso di 20 kg da un’altezza di 1 metro, in quelle di sicurezza).
Inoltre, poiché gli scivolamenti e le cadute sono tra le maggiori cause di infortunio sul lavoro tutte le calzature antinfortunistiche (classe I o II) devono essere resistenti allo scivolamento.

Veniamo ai requisiti di protezione aggiuntivi alle dotazioni di base minime, requisiti che possono essere necessari per proteggere da alcuni rischi specifici.

Ad esempio, rispetto al rischio elettrico, si devono indossare calzature conduttive o almeno antistatiche: quelle conduttive (sigla C, classi I o II), sono necessarie quando occorre ridurre al minimo le cariche elettrostatiche potenziali causa di scintille (ad esempio nella manipolazione di esplosivi) e invece, al contrario, sono da evitare accuratamente se non è stato completamente eliminato il rischio di scosse elettriche prodotte ad esempio da elementi sotto tensione.
Le calzature isolanti (sigla I, pittogramma con doppio triangolo) sono solo di classe II, cioè interamente di gomma (cioè interamente vulcanizzate) o di materiale polimerico (cioè interamente formate) e sono necessarie quando si ha rischio di scosse elettriche (ad esempio nelle installazioni elettriche, nei lavori elettrochimici, se ci sono apparecchi elettrici danneggiati con elementi sotto tensione).

Riguardo invece ai rischi termici, si possono avere calzature che isolano il piede dal calore (HI), da usare quando si prevede presenza di forte calore (ad esempio se si deve calpestare una superficie calda, come nei lavori di bitumazione stradale o nella siderurgia), oppure, al contrario, calzature (CI) che isolano dal freddo (ad esempio per lavori all’esterno a basse temperature o industria alimentare con conservazione a freddo).

Esistono poi anche protezioni particolari per attività specifiche, come nel caso delle calzature resistenti:
-         al calore e spruzzi di metallo fuso, come può avvenire in fonderia o in saldatura, per cui è richiesto l’uso di specifica calzatura atta a proteggere contro i rischi termici;
-         al taglio da motosega a mano (sega a catena), sempre necessarie in tutte le attività che comportano il maneggiare una sega a catena (ad esempio lavori boschivi, costruzioni, industria del legno, ecc.); sono marcate con un pittogramma supplementare rappresentante una sega a catena e un livello di protezione (riferito alla velocità utilizzata nella prova);
-         agli incendi: le calzature resistenti ai rischi per la lotta agli incendi (protezione dal fuoco F) hanno una classificazione complessa ma, in estrema sintesi, sono marcate con un pittogramma apposito e un simbolo (HLN) che indica il livello di protezione relativo all’isolamento dal caldo.

Riguardo infine ai criteri generali di scelta, il documento segnala che prima di scegliere il modello più adatto all’utilizzatore, tra calzature basse o alla caviglia, stivali al polpaccio o al ginocchio o alla coscia, è indispensabile conoscere i rischi legati all’ambiente di lavoro, le condizioni ambientali e la mansione di colui che le deve indossare.
Ed è necessario operare una scelta fra le tre differenti categorie di calzature antinfortunistiche (S, P, O), in base ai rischi meccanici, e poi, se necessario, in base ai requisiti supplementari.
Quando, ad esempio, è presente il rischio di caduta di gravi e di schiacciamento delle dita (imprese edili, industrie metallurgiche, lavori agricoli, demolizioni di fabbricati, ecc.) a seconda dell’entità del rischio saranno necessarie calzature di sicurezza o di protezione con puntali (da S1 a S5 e da P1 a P5).
Quando è presente il rischio di perforazioni della suola da parte di oggetti appuntiti (ad esempio ristrutturazione di rustici, lavori stradali, lavori su impalcatura, demolizioni, cantieri edili in generale ed aree di deposito) è necessario come requisito aggiuntivo la resistenza alla perforazione (P).

Senza dimenticare che la scelta di calzature inadatte può comportare problemi e rischi aggiuntivi per l’operatore: peso eccessivo della calzatura, suola troppo rigida, cattiva traspirazione, sensibilizzazione, scorretta posizione del piede sul piano di calpestio o scelta inadatta rispetto al suolo su cui si deve camminare, fanno sì che l’operatore rinunci all’ utilizzo di questi DPI, esponendosi così al rischio.

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LE CONSEGUENZE DELLA NORMATIVA SULLE MALATTIE PROFESSIONALI

Da: PuntoSicuro
29 dicembre 2015
di Tiziano Menduto

Alcuni interventi riflettono sulle conseguenze in questi ultimi venti anni della normativa in materia di salute e sicurezza sugli infortuni lavorativi e sulle malattie professionali. La situazione attuale, i mutamenti e i suggerimenti per il futuro.

La normativa in materia di salute e sicurezza sul lavoro (a partire dal D.Lgs.626/94 e con riferimento alle leggi successive come il D.Lgs.494/96, il D.Lgs.81/08 e le correlate leggi di modifica) ha portato importanti modifiche e cambiamenti.
Benché non sia facile verificarne i risultati, un convegno che si è tenuto il 27 ottobre 2015 a Milano, promosso da diverse associazioni, ha cercato di valutarli e di comprendere come poter meglio calibrare le future strategie e obiettivi di prevenzione.

Stiamo parlando del convegno dal titolo “A 20 anni dalla 626/94: quali risultati possiamo valutare?” che si è dunque soffermato a ragionare sui risultati in termini di salute e sicurezza nel lavoro conseguiti in conseguenza delle trasformazioni normative degli ultimi venti anni.
Trasformazioni che hanno comportato profonde modifiche nell’assetto istituzionale, nel sistema e nelle responsabilità delle imprese e più in generale nelle modalità e nell’assetto della prevenzione dei rischi lavorativi.

A presentare il convegno e queste modifiche è stato un intervento introduttivo a cura di Claudio Calabresi (Società Nazionale Operatori della Prevenzione).

L’intervento ha ricordato che l’andamento degli infortuni negli ultimi anni ha evidenziato un progressivo decremento, non senza criticità, certamente legato anche alle modifiche produttive e negli ultimi anni alla crisi e alla contrazione del lavoro (e c’è da aspettarsi, con l’attenuarsi della crisi, un arresto del decremento e forse un nuovo aumento, di cui sembra ci siano già i segnali).
Riguardo invece alle malattie professionali, si indica che tali malattie sono complessivamente aumentate negli ultimi 7-8 anni, sostanzialmente per il “decollo” delle patologie osteo-artro-muscolo-tendinee (70%), ma è probabile che in qualche tempo si ritorni ad una diminuzione.

Il relatore ricorda che stiamo assistendo a diverse elementi che potranno indurre nel prossimo futuro a modifiche delle conseguenze del lavoro sulla salute: le profonde modifiche produttive e dei rapporti di lavoro, con il procedere della terziarizzazione e il progressivo rilevante decremento delle attività manifatturiere, la flessibilità imponente con il frequente cambio di attività e mansioni di un gran numero di lavoratori, la precarizzazione, il non-lavoro, la disoccupazione alternata a lavori instabili, questi anni di crisi.
Mutamenti possono avvenire anche nella distribuzione e tipologia degli infortuni sia, forse soprattutto, nelle patologie professionali, con una diminuzione dei quadri “classici”.
Aumenteranno, infatti, le patologie psico-fisiche “multifattoriali” di non semplice interpretazione causale, sempre più di confine tra lavoro e vita. Occorre quindi “attrezzarsi” sempre di più per saper “leggere” (e far fronte a) questa probabile futura evoluzione.

Non ci si deve fermare poi agli infortuni e alle malattie professionali.
Ci sono infatti altri effetti (meno “classificati”) sulla qualità della vita, sulle variazioni biologiche, psico-fisiche nelle varie fasce di lavoratori, sulle patologie che apparentemente non sono tipicamente di origine lavorativa o vengono definite multifattoriali, sulla durata (o attesa) della vita.

Riguardo alla popolazione lavorativa di cui occuparsi, il relatore indica che la popolazione assicurata “stimata” presso l’INAIL è attualmente pari a circa 17 milioni di addetti, ma gli occupati stimati dall’ISTAT sono attualmente tra i 22 ed i 23 milioni e ci sono poi almeno circa 3 milioni di occupati (forse anche più) che non lavorano in regola.
In definitiva i lavoratori tutelati assicurativamente dall’INAIL, nei quali si “contano” i danni da lavoro, sono circa il 70% dei lavoratori effettivamente attivi nel Paese.

Claudio Calabresi, che si sofferma anche sulla presenza di disomogeneità, di diseguaglianze, in tema di diritti dei lavoratori, indica che occorre potenziare e accelerare la costruzione di un valido, organico e completo Sistema informativo, e aumentare la disponibilità e fruibilità delle informazioni per le varie categorie di soggetti interessati e coinvolti.

Per approfondire il tema delle conseguenze delle normative in materia di salute e sicurezza sulle malattie professionali, ci soffermiamo brevemente anche sull’intervento “Gli effetti dei cambiamenti normativi sulle malattie da lavoro”, a cura di Alberto Baldasseroni (Centro Regionale Infortuni e Malattie Professionali della Regione Toscana).

La relazione si sofferma ampiamente sulla storia del riconoscimento delle malattie professionali in Italia, a partire dall’Assicurazione obbligatoria contro le Malattie Professionali (Regio Decreto n.928 del 13 Maggio 1929), entrata in vigore il 1° gennaio del 1934, ma per l’indennizzabilità delle malattie dal 1° luglio del 1934.

Sono poi riportate indicazioni sull’andamento dei riconoscimenti con indennizzo delle 5 più frequenti malattie professionali (ipoacusia; dermatite da contatto e altri eczemi; affezione dei dischi intervertebrali; malattie dei tendini e affezioni delle sinoviali, tendini e borse; affezioni dei muscoli, legamenti, aponeurosi e tessuti molli). Indicazioni che mostrano ad esempio, come evidenziato già da Claudio Calabresi, l’aumento delle patologie osteo-artro-muscolo-tendinee e la diminuzione delle ipoacusie nel periodo tra il 1994 e il 2012.

Il relatore affronta poi il tema delle nuove patologie e indica anche che gli studi epidemiologici documentano in maniera robusta che lo stress causa incrementi nella patologia dei lavoratori esposti. Tuttavia i sistemi di monitoraggio delle malattie professionali attualmente esistenti nel nostro paese non sono in grado di cogliere questo fenomeno, dato che sono basati sull’accertamento individuale del rischio e del nesso tra esposizione e malattia.
E in assenza di sistemi di sorveglianza epidemiologica orientata a seguire (follow-up) il destino di salute di coorti di lavoratori esposti a noxae patogene, quali per esempio lo stress, è difficile che anche nel prossimo futuro si possa disporre di stime accurate dei danni dovuti a questo fattore di rischio.

Riportiamo infine le conclusioni della relazione.
Per avere un’idea più vicina alla realtà del carico di danni dovuto alle malattie professionali è importante uscire dalla “gabbia” del nesso individuale di causalità e dedicare risorse anche a stimare il “burden of disease” (carico di malattia) attribuibile al lavoro per decidere priorità e esigenze di salute. Ricordiamo che con disease burden si può intendere l’impatto di un problema di salute e il Global Burden of Disease è un sistema di misurazione della salute che consente di generare stime sul peso di singoli fattori o gruppi di fattori che sono in grado di orientare politiche e programmi.
In attesa di disporre di tali stime è comunque doveroso far buon uso degli strumenti basati sul computo dei casi di malattie per le quali sia stata individuata una causa lavorativa e che sono ormai disponibili per la programmazione e la valutazione del lavoro di prevenzione.

Il documento “Intervento di Claudio Calabresi” è scaricabile all’indirizzo:
Il documento “Gli effetti dei cambiamenti normativi sulle malattie da lavoro” è scaricabile all’indirizzo:



I RISCHI ORGANIZZATIVI E PSICOSOCIALI NELLE STRUTTURE OSPEDALIERE

Da: PuntoSicuro
30 dicembre 2015
di Tiziano Menduto

Per una valutazione efficace dei rischi negli ambienti ospedalieri bisogna tener conto anche degli aspetti psicologici e organizzativi. Focus sullo stress psichico tra gli operatori e sulle conseguenze sulla salute del lavoro notturno.

In questi mesi, presentando i rischi degli operatori sanitari (attraverso quanto riportato dal Servizio di Prevenzione e Protezione dell’ Azienda Sanitaria Locale Alba-Bra), ci siamo soffermati sui rischi chimici e biologici, sui rischi correlati alla movimentazione manuale dei carichi e dei pazienti e agli agenti fisici e sui rischi infortunistici.

Tuttavia negli ambienti sanitari per poter valutare efficacemente i rischi e tutelare adeguatamente la salute e sicurezza dei lavoratori, non bisogna dimenticare anche la rilevanza dei rischi psicosociali e dei rischi organizzativi.

A questo proposito il Servizio di Prevenzione e Protezione dell’ Azienda Sanitaria Locale Alba-Bra, ricorda che in ambiente ospedaliero sono frequentemente segnalate situazioni di stress psichico tra il personale. Le cause possono essere legate sostanzialmente a fattori di tipo individuale, organizzativo, sociale o culturale.

Ad esempio si fa riferimento al coinvolgimento emotivo richiesto talvolta dal paziente, l’impatto quotidiano con la sofferenza, il dolore o la morte, possono generare nel personale sanitario e in particolare in quell’infermieristico sensazioni di fallimento e distacco personale.
Inoltre si segnala che le condizioni dell’ambiente di lavoro prevedono molte volte un sovraccarico di lavoro, mancanza di pianificazione, svalutazione della professionalità, burocratizzazione eccessiva. Elementi che possono essere motivo di perdita d’interesse alla professione e alla responsabilità nel proprio lavoro.

Una adeguata prevenzione in ambito stress lavoro correlato dovrebbe, ad esempio, prevedere una riduzione dei sovraccarichi di lavoro, il coinvolgimento dei lavoratori nell’organizzazione, la formazione costante del personale e il suo sostegno psicologico finalizzato a sostenere angosce e ansie legate alla sofferenza, alle malattie e alla morte.

Riguardo ai rischi organizzativi, il Servizio di Prevenzione e Protezione si sofferma in particolare sul lavoro notturno, con riferimento anche a quanto contenuto nel Decreto Legislativo n. 532 del 26 novembre 1999, recante “Disposizioni in materia di lavoro notturno”.

Il D.Lgs. 532/1999 definisce:
-         lavoro notturno: l’attività svolta nel corso di un periodo di almeno sette ore consecutive comprendenti l’intervallo fra la mezzanotte e le cinque del mattino;
-         lavoratore notturno: qualsiasi lavoratore che durante il periodo notturno svolga, in via non eccezionale, almeno tre ore del suo tempo di lavoro giornaliero; qualsiasi lavoratore che svolga, in via non eccezionale, durante il periodo notturno almeno una parte del suo orario di lavoro normale secondo le norme definite dal contratto collettivo nazionale di lavoro; in difetto di disciplina collettiva è considerato lavoratore notturno qualsiasi lavoratore che svolga lavoro notturno per un minimo di 80 giorni lavorativi all’anno.

Riguardo alle conseguenze sui lavoratori si sottolinea che l’alterazione delle condizioni di salute dei turnisti dipende oltre che dall’alterazione dei ritmi biologici (sfera biologica) anche dalle interferenze sulle abitudini alimentari e di sonno dei soggetti esposti (sfera lavorativa) e dalle eventuali interferenze sulla vita di relazione (sfera relazionale).

Il sonno è sicuramente il primo elemento a subire modifiche dal lavoro a turni. Una riduzione delle ore di sonno si determina già nel corso del turno mattutino in relazione all’alzata precoce. Inoltre nel turno notturno la riduzione del sonno è più vistosa in presenza di situazioni familiari ed abitative sfavorevoli, che limitano la possibilità di recupero successivo.

E comunque con il lavoro a turni ad alterarsi non è solo la quantità di sonno ma anche la sua qualità a causa della perturbazione delle fasi del sonno che riducono i periodi di sonno profondo e di sonno REM: ciò determina un minor effetto ristoratore del sonno che si accentua quando si dorme di giorno. E con l’età si assiste ad un’accentuazione delle alterazioni quantitative e qualitative del sonno. Si pensa che i lavoratori turnisti abbiano un più precoce invecchiamento funzionale rispetto a quelli non in turno anche a causa di tale fattore.

Veniamo ai problemi alimentari.
Questi problemi sono legati alla anomala sequenza dei pasti e all’interferenza sui pasti operata dal sonno:
-         i turnisti (anche se si alimentano normalmente) per effetto del turno spostano la sincronizzazione socio-ambientale dei pasti;
-         il turno mattutino di solito interferisce con l’orario del pranzo e induce uno spostamento del pasto di due o tre ore;
-         allo stesso modo il turno pomeridiano ha un effetto sulla cena;
-         durante il turno di notte, anche se gli orari dei pasti si mantengono, si modifica la qualità dei cibi consumati (prevalentemente freddi e preconfezionati) e aumenta l’incremento di bevande stimolanti (caffè e tè) e di tabacco.
E dunque nei turnisti può registrarsi un incremento delle malattie dell’apparato digerente (gastroduodenite, ulcera peptica, colonpatie funzionali).

La relazione ricorda poi che un altro problema rilevante nel lavoro a turni è l’incidenza dei disturbi psichici (disturbi comportamentali, sindromi ansiose e depressive) e neurologici (fatica cronica, insonnia). I lavoratori a turni, pertanto, spesso assumono psicofarmaci e ricorrono al ricovero in luoghi di cura con maggior frequenza della restante popolazione attiva.

Vengono poi brevemente presentati alcuni risultati di studi sulla salute dei turnisti.
Ad esempio con riferimento a:
-         aumento del rischio per le malattie cardiovascolari (indagini effettuate nei paesi scandinavi): i problemi cardiaci (angina, infarto) sono da due a tre volte più frequenti nei lavoratori con turni solo di mattina; tale rischio è indipendente dall’età e dal consumo di tabacco;
-         aumento del colesterolo e dei trigliceridi: a prescindere dall’uso o dall’abuso di tabacco e dall’anzianità anagrafica si è riscontrato un maggiore incremento del LDL e una riduzione del HDL durante il lavoro notturno; le alterazioni dell’assetto lipidico appaiono indipendenti dall’obesità e dalle abitudini alimentari;
-         irregolarità mestruali, un minor numero di gravidanze, un incremento d’incidenza di minacce d’aborto e di aborti spontanei sono state osservate nelle lavoratrici a turno rispetto alle donne che lavorano soltanto la mattina.

Riprendiamo infine le conclusioni del sul lavoro notturno.
 Occorre infatti valutare sotto una nuova ottica le implicazioni che il lavoro a turni determina sulla vita e sulla salute dei lavoratori.
I lavoratori turnisti, se non già soggetti a controllo periodico obbligatorio da parte di un Medico Competente, dovrebbero esser periodicamente sottoposti a visita sanitaria allo scopo di evidenziare il più precocemente possibile i segni ed i sintomi di alterazione.
E sarebbe poi importante non solo avere specifiche indagini epidemiologiche sull’incidenza di tale rischio in ambito sanitario, ma anche avviare un’indagine che approfondisca le implicazioni di tale organizzazione del lavoro sui diversi aspetti della vita relazionale e lavorativa dei turnisti e sulle ricadute che si determinano sulla loro salute.

Il documento “Principali rischi in ambiente ospedaliero”, spazio online a cura del Servizio di Prevenzione e Protezione dell’Azienda Sanitaria Locale Alba-Bra è scaricabile all’indirizzo:

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