martedì 29 dicembre 2015

29 dicembre - Da M. Spezia: SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! “LETTERE DAL FRONTE” DEL 28/12/15



INDICE

Tonino Innocenti tonino.innocenti@email.it
SUL TESTO UNICO SULLA RAPPRESENTANZA DEL 01/01/14

COP 21: DIETRO IL TRIONFALISMO, NIENTE

I FONDI EUROPEI PER RIMUOVERE L’AMIANTO

 

ITALIA BACCHETTATA SULL’AMIANTO: DEVE RISARCIRE LE VITTIME

 

“BUCHI PER TERRA”: IL CENTRO OLIO VAL D’AGRI

Posta Resistenze posta@resistenze.org
COP 21: NESSUNA AZIONE A FAVORE DEL CLIMA

Posta Resistenze posta@resistenze.org
COP21: METE E GEOINGEGNERIA

Posta Resistenze posta@resistenze.org
SETTIMANA DI 30 ORE IN SVEZIA: UNA PRIMA VALUTAZIONE MOLTO PROMETTENTE

Luigi Di Noia ilfokista@gmail.com
LA CRISI UCCIDE COME IN UNA “NUOVA GUERRA”

Riccardo Antonini erreemmea@libero.it
INCENDIO IN FERROVIA

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From: Tonino Innocenti tonino.innocenti@email.it
To:
Sent: Saturday, December 12, 2015 9:16 PM
Subject: SUL TESTO UNICO SULLA RAPPRESENTANZA DEL 01/01/14

Negli ultimi anni le politiche economiche europee e le scelte dei governi che si sono succeduti hanno colpito sistematicamente il mondo del lavoro, rendendo sempre più precari i lavoratori, devastando i salari e i diritti di lavoratrici e lavoratori.
Con il Testo Unico sulla rappresentanza del 01/01/14 (di recente attuazione) e con l’attacco al diritto di sciopero, si tenta di chiudere il cerchio per escludere dai luoghi di lavoro ogni forma di dissenso e democrazia, ogni possibilità di libera organizzazione.
In particolare, con il Testo Unico, siglato il 10 gennaio 2014 da CGIL, CISL, UIL e Confindustria, estremo tentativo corporativo di associazioni in crisi che cercano di confermare il proprio ruolo e funzione, l’intervento sindacale nei posti di lavoro è reso oltremodo subalterno al grado di asservimento nei confronti delle politiche economiche dei datori di lavoro, che azzera la democrazia sindacale nelle aziende private, estendendo (e peggiorando!) il modello Fiat Pomigliano a tutte le aziende private.
Con un assurda imposizione del peggior centralismo burocratico, che desterebbe scandalo in qualsiasi altro settore della società civile, viene inibita ogni possibile pratica di dissenso organizzato.
Cosa prevede questo accordo?
Soltanto i sindacati che “accettino espressamente, formalmente e integralmente i contenuti del presente accordo” e i conseguenti regolamenti elettorali possono:
-         concorrere senza veti e limitazioni alle RSU/RSA;
-         partecipare (se considerati “rappresentativi” di almeno il 5% dei lavoratori di un settore) alla contrattazione collettiva e aziendale;
-         essere riconosciuti dalle aziende come sindacati rappresentativi ed aver diritto alle trattenute in busta paga.
In cambio di questo, i sindacati firmatari del Testo Unico sulla Rappresentanza devono rinunciare al diritto di indire liberamente lo sciopero e si impegnano a moderare l’ostilità contro le aziende, rinunciando di fatto alla lotta.
I sindacati firmatari, infatti, non potranno più organizzare iniziative di sciopero o di contrasto contro un contratto/accordo (aziendale o nazionale) sottoscritto dal 50% + 1 delle RSU/RSA o dai sindacati maggioritari di categoria, salvo incorrere nella soppressione dei diritti sindacali e in sanzioni economiche che possono ricadere anche sui lavoratori. Addirittura, i sindacati firmatari non potranno organizzare proteste o scioperi durante le fasi di trattativa!
Firmare questo accordo significa contribuire alla distruzione del sindacato come strumento di lotta a difesa dei lavoratori e delle lavoratrici!
Si tratta di un grave attacco ai diritti dei lavoratori e delle lavoratrici!
Il Testo Unico attacca soprattutto i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, a cui sarà negata la possibilità di scegliere liberamente i propri rappresentanti sindacali nei posti di lavoro e che, soprattutto, rischiano di dover subire in silenzio accordi al ribasso, sia sul piano salariale che dei diritti.
Si tratta di un accordo liberticida che obbliga tutti i sindacati firmatari alla concertazione, cancella la democrazia della rappresentanza e il diritto di dissenso dei lavoratori, priva lavoratori e lavoratrici dei principali strumenti a loro disposizione per respingere gli attacchi dei padroni e del governo: gli scioperi e l’azione sindacale conflittuale.
Troppi sindacati lo hanno firmato!
Purtroppo, dopo una forte iniziale mobilitazione unitaria contro il Testo Unico (che ha coinvolto numerosi sindacati, dalla FIOM ai sindacati di base) e nonostante il successo della campagna contro la firma dell’accordo vergogna, promossa dal Coordinamento No Austerity e sostenuta da varie sigle sindacali e comitati di lotta, persino alcuni sindacati conflittuali hanno deciso di firmare il testo unico.
La FIOM si sta presentando nella maggioranza delle elezioni RSU e RSA sottoscrivendo i contenuti dell’accordo, dopo che la direzione nazionale FIOM ha abbandonato la battaglia contro la firma all’interno della CGIL. Persino le direzioni nazionali di Cobas Lavoro Privato, Snater, Orsa e recentemente di USB hanno deciso di cedere al ricatto padronale, firmando questo accordo vergognoso.
Si tratta di un accordo liberticida, che cancella i più elementari diritti, come quello di scioperare contro accordi che non si condividono.
Sopprimere i diritti sulle libertà sindacali evidentemente per avvallare peggioramenti economici e normativi sulle condizioni di lavoro, è una necessità che Confindustria e CGIL, CISL, UIL, hanno partorito come prevenzione, all’inevitabile inasprimento della conflittualità tra capitale e lavoro.
Noi pensiamo che quanti più sindacati firmano questo accordo vergognoso tanto più si indebolisce la lotta contro il Jobs Act, contro i licenziamenti, contro il razzismo e contro tutte le misure governative di austerity e privatizzazione.
I dirigenti sindacali che firmano l’accordo rinunciano di fatto a lottare per respingerlo e aprono la strada a una nuova legge contro il diritto di sciopero, di rappresentanza e di libera espressione: una legge già annunciata dal governo, che, come dimostrano le sempre più frequenti dichiarazioni di ministri e parlamentari, tenterà di cancellare ogni minimale diritto di dissenso.
Secondo i disegni padronali e delle sigle sindacali che hanno avallato tale progetto antidemocratico, le forze organizzate che dissentono dalle politiche economiche e sociali dominanti, debbono adeguarsi e sottoscrivere il Testo Unico, per garantirsi la sopravvivenza, rassegnandosi alla marginalità e all’impotenza.
In questo contesto è necessario ed irrinunciabile porsi alcune domande:
-         è possibile cercare soluzioni alternative o bisogna rassegnarsi e adeguarsi supinamente a svolgere l’attività sindacale che “serve” ai padroni ?
-         ci può essere futuro democratico per un Paese che concede l’azione sindacale solo se subalterna ai poteri finanziari e padronali ?
La CUB non ha sottoscritto l’adesione al Testo Unico e si batte contro i divieti all’esercizio libero del diritto di sciopero.
La CUB ritiene indispensabile cercare soluzioni che restituiscano dignità e ruolo alle lavoratrici e ai lavoratori, nel libero e democratico esercizio dell’attività sindacale.
Rilanciamo la campagna contro l’accordo della vergogna e per la difesa del diritto di sciopero!
Contro lo sfruttamento di padroni e governo i lavoratori devono organizzarsi autonomamente attraverso rappresentanti che siano espressione delle lotte e non con finti delegati, servi dei diktat aziendali, con le mani legate e privi di concreti strumenti di opposizione sindacale.
E’ necessario e urgente rilanciare la battaglia contro l’accordo della vergogna sulla rappresentanza, parallelamente alla campagna contro la repressione delle lotte e del dissenso.
Difendere il sindacalismo conflittuale e il diritto di sciopero è un primo fondamentale passo per una mobilitazione unitaria e coordinata contro le politiche di austerity imposte dal governo (tra cui il Jobs Act) e contro la privatizzazione di Sanità, Trasporti, Scuola (la cosiddetta “Buona Scuola”), che speculano sul costo del lavoro e dismettono i servizi pubblici essenziali.

FLM Uniti CUB Campania

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From: Alfonso Navarra alfonsonavarra@virgilio.it
To:
Sent: Monday, December 14, 2015 12:39 AM
Subject: COP 21: DIETRO IL TRIONFALISMO, NIENTE

Eccolo finalmente, in ritardo di un giorno, e con un rinvio anche stamattina (dalle 9.00 annunciate si è passati alle quasi 19.00 di stasera), da Le Bourget di Parigi, il famoso, storico, “sospirato” (dalla elite mediatica e politica), accordo sul clima. Quello che, a modesto parere del sottoscritto, ispirato dalle critiche di Hermann Sheee al “minimalismo organizzato” delle conferenze, e alle pretese di mercificazione dell’aria (con il sistema della compravendita dei crediti di inquinamento), anche se rispettato, ci rovinerà comunque.
Quello che consente di suonare le trombe della vittoria, a Hollande, a Ban Ki-moon, praticamente a tutti i capi di Stato, ma anche alle associazioni ambientaliste come WWF e Greenpeace, è l’obiettivo ufficialmente raggiunto dopo tredici giorni di negoziati: “L’aumento della temperatura sarà mantenuto ben sotto i due gradi”, è il titolone che sarà sparato sui giornali.
Ciò che è ufficiale, che sta davanti agli occhi di tutti, e quindi mi interessa come “problema da indagare”, da “antigiornalista” che usa il cervello e non le gambe per inseguire i pettegolezzi di corridoio, è che si tratta non di lotta al riscaldamento climatico, ma di mitigazione e adattamento. A riflettere bene su questa realtà palese si dovrebbe, a mio parere, capire meglio il senso delle cose.
All’inizio c’è la questione dei tagli delle emissioni di CO2 e delle quote in cui devono essere distribuiti; ma si parla anche di un futuribile percorso verso le zero emissioni, per il quale viene fissato un orizzonte “nella seconda metà del secolo”, che però non stabilisce passaggi né scadenze precise.
Ma a ben vedere gli stessi tagli non hanno una scadenza di partenza. Quindi si resterà fermi per anni, con obiettivi proclamati, ma non attuati, prima di iniziare davvero (forse) la cura alla “febbre del Pianeta”. Il buon senso comune non osserverebbe che il paziente, vale a dire l’ecosistema globale che ci permette di vivere, in questo modo potrebbe tirare le cuoia?
L’ipocrisia di fondo del circo mediatico-diplomatico della COP 21, con contorno, ripeto, delle grandi ONG accreditate a “spingere”, al sottoscritto appare evidente. Spiegatemi come si può conciliare la stabilizzazione del clima con il via libera via libera alle trivelle nell’Artico e ovunque e con il mantenimento dei 500 miliardi di dollari anni per incentivare i combustibili fossili (di cui a Parigi non si fa quasi menzione)!
Questa la situazione in cui l’ambientalismo mediatico delle grandi ONG si inserisce con il +1 (ad esempio più soldi al Fondo per i Paesi in via di sviluppo) sostanzialmente all’interno degli stessi parametri: OXFAM, Greenpeace, WWF, etc., fatemi il piacere!
Non si coglie il principio di fondo: è il momento, questo, non della transizione, ma della rivoluzione energetica, che ciascun Paese può e deve (grazie alla pressione popolare) iniziare a percorrere da subito, senza stare ad aspettare gli altri, l’accordo di tutti, perché il 100% rinnovabili subito si basa (riprendo Hermann Sheer) su tre azioni semplicissime:
-         chiudere il rubinetto dei finanziamenti pubblici ai combustibili fossili (in Italia 15 miliardi di euro all’anno);
-         stabilire la priorità delle FER nel dispacciamento in rete;
-         garantire, con le municipalizzate e le aziende locali, l’infrastruttura adeguata.
Non servirebbe altro e misure come queste produrrebbero più trasformazioni di sistema di tutte le chiacchiere sull’ “abbattimento del capitalismo” e il “superamento della logica del profitto”, magari con contorno di convinzioni più o meno dichiarate sull’inevitabile necessità dell’insurrezione armata.
Molti “anticapitalisti” che non fanno l’analisi concreta della situazione concreta, che non si sforzano di esaminare, alla Luciano Gallino, ad esempio, come funzionano effettivamente le cose, sono i primi a credere alle favole che raccontano i veri “capitalisti”. Veramente credono che se l’ENI potesse fare più profitti col “sole” abbandonerebbe subito l’estrazione di gas e petrolio? Che esista un qualcosa che, sui grandi beni e servizi, possa chiamarsi “concorrenza economica sul libero mercato”?
E’ la favola a cui crede, per esempio, lo scienziato James Hansen, intervistato oggi sul sito di Repubblica, che pure giudica l’accordo “una frode, un falso”. Ecco le sue motivazioni: “E’ una sciocchezza dire: abbiamo l’obiettivo dei 2 gradi e cercheremo di fare un po’ meglio ogni 5 anni. Sono solo parole senza senso. Non c’è nessuna azione, solo promesse. Fino a che i carburanti fossili saranno i più economici, continueranno a essere bruciati”. Quello che dimentichi anche tu, caro Hansen, è che i fossili sono economici in quanto spropositatamente sovvenzionati. E dimentichi anche di chiederti perché ciò si verifica. E’ un fatto casuale?
Gli anticapitalisti ideologici, come Hansen, insomma non si rendono conto che esiste un rapporto organico tra appoggio dello Stato, orientato dalla logica della potenza, e certe scelte economiche e tecniche, che devono essere coerenti con la realtà di una grande organizzazione economica che, anche grazie all’accesso alle casse dello Stato, concentra risorse e tecnologia.
L’ENI investirà come core business nel sole solo se si troverà il modo, conservando il rapporto con l’elite burocratica di Stato, di recintarlo e di sfruttarlo con tecnologie molto complesse e non liberamente disponibili: il profitto (la differenza tra costi e ricavi, che tra l’altro si misura in valori monetari ed è quindi legato alla complessa tecnologia sociale e politica della moneta) da solo non c’entra un beneamato tubo!
Ma rientriamo nel merito di ciò di cui tutti parlano sui media.
L’accordo della COP 21 in questione è il primo firmato subito da 195 Paesi, e la presidenza francese, come ci tocca sentire, se ne fa un gran vanto.
Lo scoglio più duro che si è dovuto superare nella fase finale è stato quello della “differenziazione di responsabilità” tra Paesi ricchi e Paesi in via di sviluppo, con l’India in particolare a puntare platealmente i piedi (ma anche la Cina dietro le quinte).
A tirare la coperta dal punto di vista dell’”ambizione” degli obiettivi (il famoso tetto di 1,5°C di aumento al posto di 2°C) abbiamo trovato invece Stati come Nigeria, Grenada o l’arcipelago polinesiano di Palau, mobilitati attivamente per difendere “passaggi chiave” dell’accordo sulla tutela delle aree vulnerabili (in particolare quelle che i mari stanno per sommergere).
Sui temi più spinosi si sono trovate formule di compromesso, ad esempio sui “loss and damages”, il supporto ai paesi “vulnerabili” per affrontare i cambiamenti “permanenti e irreversibili”, che vengono dati per scontati, visto che appunto ci si deve adattare al riscaldamento climatico, che, “repetita iuvant”, può solo essere contenuto, non evitato.
I climatologi fissano i 2° C come “linea rossa” da non superare per evitare un precipizio catastrofico (ed è dubbio che gli scienziati stessi sappiano bene cosa intendono con questa espressione). La realtà, stando ai loro stesi calcoli, è che la traiettoria reali verso cui portano gli impegni presi dagli Stati portati alla Conferenza è di 3 - 3,5° C: un disastro di grandi, forse irrimediabili, proporzioni!
Mi fermo qui.
Sui dettagli dell’accordo basta il lavoro dei “giornalisti”. Cioè potete benissimo leggere (con attenzione critica) quanto comunica l’ANSA con il dispaccio che riporto sotto.

STORICO ACCORDO SUL CLIMA
La scheda sui punti principali dell’accordo la si trova alla URL:
http://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2015/12/12/scheda-clima-i-punti-principali-dellaccordo-di-parigi_fd6ee519-89ff-4852-8489-a0dc227d02b4.html
Ecco i punti principali dell’accordo finale della COP21 e della decisione che lo accompagna.
RISCALDAMENTO GLOBALE
L’articolo 2 dell’accordo fissa l’obiettivo di restare “ben al di sotto dei 2 gradi rispetto ai livelli pre-industriali”, con l’impegno a “portare avanti sforzi per limitare l’aumento di temperatura a 1,5 gradi”.
OBIETTIVO A LUNGO TERMINE SULLE EMISSIONI
L’articolo 3 prevede che i Paesi “puntino a raggiungere il picco delle emissioni di gas serra il più presto possibile”, e proseguano “rapide riduzioni dopo quel momento” per arrivare a “un equilibrio tra le emissioni da attività umane e le rimozioni di gas serra nella seconda metà di questo secolo”.
IMPEGNI NAZIONALI E REVISIONE
In base all’articolo 4, tutti i Paesi “dovranno preparare, comunicare e mantenere” degli impegni definiti a livello nazionale, con revisioni regolari che “rappresentino un progresso” rispetto agli impegni precedenti e “riflettano ambizioni più elevate possibile”. I paragrafi 23 e 24 della decisione sollecitano i Paesi che hanno presentato impegni al 2025 “a comunicare entro il 2020 un nuovo impegno, e a farlo poi regolarmente ogni 5 anni” e chiedono a quelli che già hanno un impegno al 2030 di “comunicarlo o aggiornarlo entro il 2020”. La prima verifica dell’applicazione degli impegni è fissata al 2023, i cicli successivi saranno quinquennali.
LOSS AND DAMAGE
L’accordo prevede un articolo specifico, l’8, dedicato ai fondi destinati ai Paesi vulnerabili per affrontare i cambiamenti irreversibili a cui non è possibile adattarsi, basato sul meccanismo sottoscritto durante la COP19, a Varsavia, che “potrebbe essere ampliato o rafforzato”. Il testo “riconosce l’importanza” di interventi per “incrementare la comprensione, l’azione e il supporto”, ma non può essere usato, precisa il paragrafo 115 della decisione, come “base per alcuna responsabilità giuridica o compensazione”.
FINANZIAMENTI
L’articolo 9 chiede ai Paesi sviluppati di “fornire risorse finanziarie per assistere” quelli in via di sviluppo, “in continuazione dei loro obblighi attuali”. Più in dettaglio, il paragrafo 115 della decisione “sollecita fortemente” questi Paesi a stabilire “una roadmap concreta per raggiungere l’obiettivo di fornire insieme 100 miliardi di dollari l’anno da qui al 2020”, con l’impegno ad aumentare “in modo significativo i fondi per l’adattamento”.
TRASPARENZA
L’articolo 13 stabilisce che, per “creare una fiducia reciproca” e “promuovere l’implementazione” è stabilito “un sistema di trasparenza ampliato, con elementi di flessibilità che tengano conto delle diverse capacità”.

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To:
Sent: Wednesday, December 16, 2015 5:58 PM

Subject: I FONDI EUROPEI PER RIMUOVERE L’AMIANTO

 

Da: http://www.beppegrillo.it

Comuni e Regioni hanno un’occasione d’oro.
I fondi europei possono essere usati per bonificare l’amianto dagli edifici pubblici. Come denunciato dal Movimento 5 Stelle l’amianto non è stato ancora rimosso dal 98% degli edifici pubblici e dei luoghi di lavoro in cui è presente. Tetti, tegole, pavimento dei cortili, protezioni da calore sono una minaccia alla salute degli italiani. Negli ultimi 20 anni le vittime di mesotelioma (il cancro dell’amianto) sono state 21.463. Considerando i tumori a polmoni, laringe, esofago e testicoli i decessi totali superano le 30 mila unità. Solo le bonifiche possono salvare le vite umane.
L’Europa adesso tende una mano a Comuni e Regioni. Nell’accordo di partenariato Italia-UE per la programmazione dei fondi 2014-2020 si prevede la possibilità di smaltire l’amianto e ristrutturare il patrimonio edilizio, anche con finalità di risparmio energetico.
Tutti gli enti locali e regionali devono attivarsi per sfruttare questa possibilità che finora era stata esplorata solo in minima parte. Il disco verde è arrivato dalla Commissione europea che, in risposta a una interrogazione presentata dal portavoce Ignazio Corrao, ha aperto all’uso dei Fondi strutturali e d’investimento europei, in gestione concorrente, per sostenere la rimozione di amianto dagli edifici, purché, dice la Commissaria Cretu, sussistano evidenti legami con le priorità di investimento elencate nei programmi nazionali o regionali.
Nonostante, dunque, sia stato concesso all’Italia di prevedere la rimozione dell’amianto tramite bandi appositi nei diversi Programmi Operativi a valere sul FESR, sono ancora pochissimi i Comuni in cui la mappatura degli edifici con amianto è stata completata. Un uso intelligente ed ecosostenibile dei fondi è un mezzo per arginare i rischi legati alla salute, ma anche per favorire la crescita occupazionale e ridurre il consumo di suolo.
Il Parlamento europeo, lo scorso 25 novembre, grazie a due emendamenti presentati dai portavoce del Movimento 5 Stelle (Laura Agea, Tiziana Beghin, Rosa D’Amato e Piernicola Pedicini) ha bacchettato l’Italia che dell’amianto se ne frega.
Nel primo, si chiede alla Commissione europea di finanziare con fondi adeguati i piani d’azione nazionale e la rimozione dell’amianto.
Nel secondo, si chiede che tutti gli Stati membri facciano un censimento vero, conformemente alla direttiva europea approvata nel 2009, e risarciscano i lavoratori vittime dell’esposizione all’amianto.
Se non fosse chiaro, ci sono i soldi per rimuovere l’amianto. Basta solo volerlo.

 

Il video I portavoce al Parlamento europeo Ignazio Corrao e Rosa D’Amato spiegano come cogliere l’opportunità dei fondi europei. Per l’amianto, ma non solo” è visibile al link:


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To:
Sent: Wednesday, December 16, 2015 5:59 PM

Subject: ITALIA BACCHETTATA SULL’AMIANTO: DEVE RISARCIRE LE VITTIME

 

Da: http://www.beppegrillo.it

C’è chi sfila alla Prima della Scala e chi invece lotta per i diritti dei cittadini. A Milano all’esterno della Scala, durante la Prima del teatro scaligero, alcuni lavoratori hanno protestato portando in piazza sette croci, simbolo dei loro colleghi vittime dell’esposizione all’amianto. Nessuno è andato fuori ad ascoltarli, nessuno ha detto loro che si farà di tutto per rimuovere l’amianto da edifici e luoghi di lavoro perché, forse il Presidente del Consiglio non lo sa, ma di amianto si muore ancora oggi, 23 anni dopo la legge che lo rendeva illegale.
Negli ultimi 20 anni in Italia le vittime di mesotelioma sono state 21.463. Per capire quanto grave sia la sottovalutazione dell’esposizione all’amianto bisogna però aggiungere, a questi drammatici dati, anche i 3.000 decessi per tumore ai polmoni e i 6.000 per quello alla laringe, all’esofago e ai testicoli. Questi numeri sono relativi ai soli casi certificati, dunque sono sottostimati.
In Italia solo il 2% dell’amianto presente negli edifici e luoghi di lavoro è stato bonificato. Il piano nazionale per lo smaltimento dell’amianto è lettera morta, poiché la Conferenza Stato-Regioni non lo ha reso esecutivo. Queste inadempienze non passano inosservate in Europa. E adesso, grazie al Movimento 5 Stelle, arriva la bacchettata del Parlamento europeo che, in una risoluzione approvata in plenaria, bacchetta l’Italia e tutti i Paesi che hanno messo il problema sotto il tappeto.
Il Movimento 5 Stelle Europa, tramite i portavoce Laura Agea, Tiziana Beghin, Rosa D’Amato e Piernicola Pedicini, ha presentato due fondamentali emendamenti che poi sono stati approvati dall’aula.
Nel primo si chiede alla Commissione europea di finanziare con fondi adeguati i piani d’azione nazionale e la rimozione dell’amianto.
Nel secondo si chiede che tutti gli Stati membri facciano un censimento vero, conformemente alla direttiva europea approvata nel 2009, e risarciscano i lavoratori vittime dell’esposizione all’amianto.
In Italia sono pochissimi i Comuni in cui la mappatura degli edifici con amianto è stata completata. A Carpi, per esempio, ci sono ben 2.000 tetti in amianto, ma i cittadini non lo sanno perché le notifiche con le comunicazioni sono addirittura bloccate. L’Osservatorio italiano amianto denuncia l’inadempimento da parte dello Stato italiano dell’obbligo di tutela della salute e dell’ambiente in ordine al rischio amianto. Lo ha fatto in un convegno organizzato al Parlamento europeo dalla portavoce Tiziana Beghin.

Il video “Ecco le croci portate in piazza della Scala dai lavoratori del teatro durante la Prima. Solo il Movimento 5 Stelle lotta per i diritti delle vittime” è visibile al link:

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To:
Sent: Wednesday, December 16, 2015 5:45 PM
Subject: “BUCHI PER TERRA”: IL CENTRO OLIO VAL D’AGRI

”BUCHI PER TERRA”: IL CENTRO OLIO VAL D’AGRI
UN REPORTAGE DI MAURIZIO BOLOGNETTI
Il cuore delle attività di estrazione idrocarburi in Basilicata è rappresentato dal Centro Olio Val d’Agri (COVA), uno stabilimento a rischio incidente rilevante ubicato nella zona industriale di Viggiano (PZ), dove affluisce il greggio che la Joint Venture ENI Shell estrae dai 27 pozzi della concessione di coltivazione idrocarburi “Val D’Agri”.
Nel COVA il greggio subisce un primo trattamento, che consiste nella separazione della miscela di idrocarburi, gas naturale e acque di strato proveniente dalle aree pozzo.
Uno dei prodotti che residuano dal trattamento subito dall’oro nero all’interno del Centro Olio è rappresentato dalle cosiddette acque di strato, che “contengono composti organici (idrocarburi e non, additivi chimici utilizzati per migliorare il processo estrattivo) ed inorganici (sali, metalli pesanti)”.
E proprio sullo smaltimento delle acque di strato si è concentrata l’attenzione della Direzione Distrettuale Antimafia (DDA) di Potenza, che da mesi indaga sulle attività estrattive in Val d’Agri.
Un’inchiesta, quella della DDA, articolata in più filoni e che ruota proprio attorno alle attività del COVA e all’impatto sull’ambiente e sulla salute umana esercitato da queste attività.
Tra le ipotesi di reato formulate dagli inquirenti il disastro ambientale e il traffico illecito di rifiuti.
L’inchiesta, che sta facendo tremare i Palazzi della politica lucana, ha avuto un ulteriore sviluppo nella giornata di martedì 2 dicembre, quando i Carabinieri del Nucleo Operativo Ecologico (NOE) dei Carabinieri hanno bussato nuovamente alle porte del Centro Olio, questa volta per indagare sull’impatto esercitato dagli inquinanti emessi dallo stabilimento.
Ironia della sorte, venerdì 5 dicembre, proprio mentre presso il comune di Viggiano era in corso un vertice sulla sicurezza, la sirena del COVA ha squarciato il silenzio della Valle dell’Agri, segnalando l’ennesimo incidente e seminando il panico tra la popolazione.
Il reportage di Maurizio Bolognetti è visibile al link: 
Al 16esimo minuto del reportage, Bolognetti intervista il medico Giambattista Mele, esponente dell’ISDE (Associazione Medici per l’Ambiente), che pone l’accento sulla forte presenza nell’ambiente circostante di idrocarburi non metanici, quali benzene H2S ed altri, con picchi di oltre 3.000 microgrammi per metro cubo, oltre 10 volte la concentrazione registrata nella città di Taranto. Rimarca che, con prova provata, anche respirare soglie minime di 6÷7 ppm di H2S giornalmente, causa il cancro polmonare.
In merito agli effetti derivanti dalla presenza di inquinanti nell’ambiente, l’intervista al medico Agostino Di Ciaula di ISDE è visionabile al link:

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From: Posta Resistenze posta@resistenze.org
To:
Sent: Thursday, December 17, 2015 1:15 AM
Subject: COP 21: NESSUNA AZIONE A FAVORE DEL CLIMA

In concomitanza con gli incontri regolari tra i rappresentanti delle multinazionali per lo sfruttamento dei combustibili fossili e del settore finanziario, che fingono di affrontare il cambiamento climatico, e qualche gruppo delle loro vittime, attualmente COP21, Oxfam ha pubblicato un’analisi che sostiene che “la disuguaglianza” è una causa centrale della crisi climatica.
Di fronte al valore in senso ampio di quest’affermazione, la replica tecnocratica occidentale è che se emettono tutti circa la stessa quantità di anidride carbonica, a risolvere la questione sarà un “democratico” suicidio di massa. Il contingente “sviluppato” in COP21 fa di questa formulazione il principio motivante: diffondere il consumismo occidentale nel mondo vista l’impossibilità di un consumo “pulito”.
L’intuizione di base del rapporto di Oxfam, che profila la catastrofe ambientale quale prodotto del consumismo occidentale, colpisce quasi il bersaglio. La questione della genesi del consumismo punta agli ampi sforzi di considerare l’acquisto capitalista come fatto naturale, mentre l’atto medesimo di vendere crea una contraddizione: perché consumare energia vendendo ciò che è naturale?
Prima del XIX secolo la storia era colma di disuguaglianza nella ricchezza, cosa che però ha contribuito molto poco in termini di emissioni di gas serra. La disuguaglianza nella distribuzione economica è l’impianto del capitalismo. Il colpevole della crisi ambientale è la disuguaglianza associata alla produzione economica capitalistica.
Consapevolmente o no, il rapporto fa rivivere un’analisi di classe marxiana globale applicata alla distruzione dell’ambiente. Rinunciando alla pretesa “antropogenica” universalistico-umanista che “tutti” siano responsabili del riscaldamento globale, degli oceani morti e del cibo geneticamente modificato, Oxfam identifica chiaramente il pezzo di umanità maggiormente responsabile, ossia le “nazioni” ricche. Ciò che unisce queste “nazioni”, come se esistessero nazioni senza il loro essere costituente e le loro istituzioni, sono le prassi economiche direttamente riconducibili allo sviluppo economico capitalistico. La “ricchezza” in questione è chiaramente la ricchezza capitalistica misurata in palazzi e conti bancari, non in acqua pulita, aria pulita e in numero di relazioni sociali intrecciate strettamente dalle persone.
In questo quadro, la produzione economica che causa il riscaldamento globale è entropica senza che sia considerata tale: le “merci” occidentali sono inesorabilmente legate ai mali occidentali e non occidentali quali la distruzione ambientale e sociale. Se le merci potessero essere prodotte senza i mali, dove sarebbero le prove? Qui entra in campo la storia delle COP (Conferenza delle Parti): 21 conferenze e confronti con le emissioni di gas serra che continuano a crescere dopo ogni singolo incontro. Anche la cornice del “cambiamento climatico” è progettata per sottovalutare l’ampiezza della devastazione ambientale: quale teoria dell’isolamento ambientale suggerisce che gli oceani morti e morenti e la continua perdita di ecosistemi interconnessi siano meno pressanti rispetto al riscaldamento globale?
Oxfam scatena le dinamiche di classe sia all’interno che tra i vari paesi. Gli interessi nazionali nell’ambito delle COP sono arbitrari e fuorvianti in quanto il capitalismo e la produzione capitalistica di Stato è transnazionale.
Dalla fine degli anni 1980, la produzione sporca occidentale è stata spostata prima nelle maquiladoras in Messico, poi nel neo/post-coloniale Oriente e nel Sud globale. Come la vulgata dominante indica nella “tecnologia” la causa della riduzione dei salari nell’Occidente sviluppato, così la produzione “pulita” viene propagandata per spiegare il declino delle emissioni di gas serra delle nazioni sviluppate, mentre in realtà i flussi commerciali attestano lo spostamento della produzione sporca dagli Stati Uniti e dall’Europa alla Cina, all’origine di qualsiasi calo effettivo. Legando la distruzione ambientale alla ricchezza, e con essa le divisioni di classe intra e internazionali, il riflettore viene puntato dove dovrebbe: sui beneficiari delle calamità ambientali.
Aggiunge complessità al ruolo della politica economica in questo processo, la creazione di denaro quasi-privato del sistema bancario capitalista, che usa la “ricchezza” intercambiabile come leva del controllo sociale sui mezzi di produzione economica occidentali. In questo caso, l’entropia economica fornisce una scala utile data la natura contestuale della catastrofe ambientale: è la scala della produzione capitalistica che si è aggregata al riscaldamento globale. Lo scarico “efficiente” delle conseguenze indesiderate di questa produzione produce profitti. La finanza facilita la mobilità e con essa la capacità di scaricare le scorie della produzione capitalistica su quelli meno in grado di resistere. Con riferimento alle inferenze malthusiane sull’entropia economica, la storia delle emissioni di gas serra seguono lo sviluppo capitalistico troppo da vicino per essere considerate accidentali.
Lo scopo della conferenza COP21, in quanto riferita agli interessi delle nazioni “sviluppate”, è quello di fornire la parvenza di azioni per il clima, senza fatti. Speranze puntate su “leader” che rappresentano gli interessi economici alla base del loro potere e della loro posizione, sono fuori luogo.
Correlato e analogo è il trattamento da parte dei “leader” occidentali dei finanzieri che così recentemente hanno schiantato l’economia globale attraverso il self-dealing [benefici monetari facilmente trasferibili, cioè originati dal trasferimento di risorse economiche dell’azienda].
Questo self-dealing “locale” che è la quotidianità del capitalismo a livello globale, diventa catastrofica attraverso l’aggregazione dei “non voluto” individuali che portano alle crisi ricorrenti. La relazione tra azioni individuali e istituzionali alla crisi sistemica è socialmente gravosa quando applicata agli affari, ma potenzialmente catastrofica se applicata all’ambiente.
La disuguaglianza in materia di cambiamenti climatici si trova con uno sproporzionato potere sociale grazie a strumenti di coercizione politica e al loro legame storico con la produzione capitalistica.
I rapporti Stato-mercato del primo capitalismo britannico sono stati un modello approssimativo per lo sviluppo economico cinese, con la produzione per l’esportazione, distruttiva per l’ambiente, a tenere “su” la catena dell’approvvigionamento globale. Il governo cinese sta cercando attivamente di aumentare i consumi interni, con la premessa che una economia di consumo autosufficiente fornirà stabilità politica. Questo insieme dinamico in movimento è la proverbiale “gara-al-ribasso”, dove le esigenze di breve termine hanno continuamente la precedenza sullo sviluppo eco-sostenibile. Qualunque siano gli impegni ambientali, le minacce e le crisi ricorrenti li terranno perennemente nel cassetto.
Il passato-presente-futuro dell’ideologia capitalista si muove senza soluzione di continuità da un passato rozzo e distruttivo per l’ambiente a un “migliorato” seppur imperfetto presente, verso un futuro scintillante e prospero. Un futuro che non arriva mai. La produzione sporca non è mai stata lasciata alle spalle e il capitalismo di mercato “emergente” servirà come luogo della distruzione ambientale in “outsourcing” per tutto il tempo che i popoli lo sopporteranno. Gli impegni ambientali non sono che una crisi del capitalismo guardata alla rovescia per via di una disperazione indotta. L’attenta analisi di queste crisi, viste come incidenti estranei ai normali meccanismi del capitalismo, fornisce una copertura alle macchinazioni imperialiste, facendole passare come fatti naturali. Nelle crisi il discorso politico si sposta su compromessi egoistici mentre gli economisti si sforzano di trovare il modo migliore per ripulire i guai inspiegabili che la natura ha compiuto.
Recenti accordi “commerciali” come il TPP (Partenariato transpacifico) e il TTIP (Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti) rappresentano i tentativi di vincolare le istituzioni statali al sostegno dell’impresa “privata”, mentre restano precluse azioni statali nel pubblico interesse che ledano il “potere economico privato”. Attraverso i tribunali dell’ISDS (Investor-State Dispute Settlement, vale a dire la “regolamentazione delle controversie tra Stato e investitore”) le corporation quantificano l’entropia della produzione capitalistica come loro risarcimento per danni non causati. La strategia del “pagherete o vi bruceremo la casa” è sepolta, è una mitologia sociale e teoria economica poco considerata. Tuttavia, l’estorsione resta estorsione, indipendentemente dalla complessità degli accordi istituzionali che l’accompagnano.
La mitologia dello sviluppo capitalistico mette a confronto regioni come l’Appalachia, distrutta dalle miniere di carbone nel XVIII secolo, al capitalismo “pulito” degli “hedge fund” quando il confronto più rilevante è quello con regioni della Cina, dell’Africa e delle Filippine distrutte nel presente per produrre le merci da esportare negli Stati Uniti e in Europa. La concezione capitalistica delle conseguenze della produzione economica è più precisamente la contabilità del giocatore d’azzardo, dove solo i crediti vengono segnati. Aria respirabile, acqua potabile e terre coltivabili sono considerati alla stregua di servizi igienici industriali, la componente “gratuita” utilizzata per dare ai prodotti un valore economico. Il “paradosso” di questi beni di prima necessità senza valore opposti al valore dei beni non di prima necessità è una conseguenza imperiale imposta come teoria di vita: sono “gratuiti” solo una volta che le persone che dipendono da loro per la loro esistenza sono state rimosse dalla considerazione.
Il differenziale di potere al lavoro, “la disuguaglianza”, contrappone il mito occidentale che “noi tutti” beneficiamo della produzione capitalistica contro il fatto che i ricchi possono, mentre la povera gente no. Anche se le conseguenze della distruzione ambientale fossero equamente distribuite, rappresenterebbero ancora una questione economica, perché la loro sorgente è la produzione della “ricchezza” occidentale. Che tali conseguenze cadano in maniera sproporzionata sui popoli che vedono poco o niente del beneficio di tale produzione, definisce una chiara dinamica di classe. Le soluzioni occidentali uniscono giochi delle tre carte come la delocalizzazione della produzione sporca con le promesse perpetue che in futuro saranno intraprese azioni concrete. Le uniche certezze sono che i capitalisti e i loro apologeti sono in procinto di rendere il pianeta inabitabile e le eventuali soluzioni reali si trovano a dispetto degli incontri “ufficiali” e non per loro merito.

Rob Urie
Artista ed economista politico.

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From: Posta Resistenze posta@resistenze.org
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Sent: Thursday, December 17, 2015 1:15 AM
Subject: COP21: METE E GEOINGEGNERIA

Uno dei temi più importanti della riunione globale della Convenzione delle Nazioni Unite sul cambio climatico che è terminata a Parigi il 12 dicembre (COP21) è stato la definizione di una nuova meta del riscaldamento globale che non si potrebbe oltrepassare. Paesi insulari e altri del Terzo Mondo da anni affermano di non poter sopravvivere a un riscaldamento globale superiore ad 1,5 gradi centigradi, visto che il loro territorio sparirebbe per l’aumento del livello del mare e per altri disastri. Ragioni più che attendibili, che si aggiungono al fatto che quei paesi non sono responsabili di aver causato il cambio climatico.
La temperatura media globale è aumentata di 0,85 gradi centigradi nell’ultimo secolo, la maggior parte dei quali durante gli ultimi 40 anni, a causa delle emissioni di gas serra di diossido di carbonio (CO2) e di altri gas causati dall’uso di combustibili fossili (petrolio, gas, carbone), in maggior parte per la produzione di energia, per il sistema agro-industriale, le urbanizzazioni e i trasporti. Se continua il corso attuale, la temperatura aumenterà fino a 6 gradi centigradi a fine secolo XXI, con impatti tanto catastrofici che non è possibile prevederli.
Nel processo verso la COP21 e fino al suo inizio, la bozza di base del negoziato prevedeva di fissare una meta di aumento globale del CO2 fino all’anno 2100, cifra che in ogni modo veniva combattuta dai paesi emissori principali.
Sorprendentemente alcuni paesi del Nord, che sono i principali colpevoli del caos climatico (tra cui Stati Uniti e Canada, così come l’Unione Europea) hanno annunciato durante la COP21 che avrebbero appoggiato una meta globale di massimi 1,5 gradi centigradi. Secondo stime scientifiche, questo implicherebbe ridurre le loro emissioni di più dell’80% antro il 2030, cosa che i governi dei paesi del Nord si rifiutano decisamente di fare.
Perchè ora dicono di accettare una meta di 1,5 gradi centigradi?
Com’era prevedibile, le loro ragioni non sono pulite e nascondono scenari che aggraveranno il caos climatico: si tratta di legittimare l’appoggio e i sussidi pubblici a tecnologie di geoingegneria e altre ad alto rischio, come il nucleare, come l’aumento del mercato del carbone e altre false soluzioni.
Qualunque sia la meta fissata nel cosiddetto Accordo di Parigi, questa non avrà costi per coloro che continueranno a contaminare. La Convenzione ha accettato, da prima della COP21, che i piani di riduzione dei gas non siano vincolanti. Si tratta di contributi previsti e determinati a livello nazionale, per i quali ogni paese dichiara le intenzioni, non accordi obbligatori. La somma dei contributi che ogni paese ha dichiarato fino ad ottobre 2015 porta già ad un aumento della temperatura da 3 a 3,5 gradi centigradi entro l’anno 2100. E questo non è neppure quello che faranno realmente (che può essere molto peggio), ma solo quello che dichiarano. Quindi, per quanto la meta fissata sia bassa, i piani reali sono chiaramente visibili e la catastrofe continua la sua marcia.
Partecipare a parole ad una meta apparentemente bassa non cambia i piani presentati, ma dà a quei governi argomenti per affermare che si devono appoggiare tecniche di geoingegneria, come l’immagazzinamento e la captazione del carbonio (CCS la sigla in inglese), tecnica che proviene dall’industria petrolifera e che essi presentano come capace di assorbire il CO2 dall’atmosfera ed iniettarlo a pressione a grande profondità nei fondali geologici terrestri o marini dove, secondo quanto afferma l’industria del petrolio, rimarrebbe per sempre.
Questa tecnologia era già nota sotto il nome di “recupero migliorato di petrolio” o, in inglese, Enhanced Oil Recovery. Serviva ad aumentare le riserve profonde di petrolio, ma non è stata sviluppata perchè non era fattibile né economicamente né tecnicamente. Ribattezzata CCS (captazione del carbonio), ora viene rivenduta come soluzione al cambio climatico.
Così i governi dovranno sovvenzionare le installazioni (per realizzare le mete della Convenzione), le imprese potranno estrarre e bruciare ancor più petrolio e oltretutto guadagnare crediti sul carbonio con l’apparente scopo di “catturare” e immagazzinare gas ad effetto serra.
Il CCS in realtà non funziona; ci sono solo tre basi operative nel mondo fortemente sostenute da fondi pubblici, oltre ad alcune altre progettate e altre chiuse per perdite del gas o rotture.
Ciò nonostante, i governi e le industrie che lo promuovono assicurano che potranno compensare con queste tecniche l’aumento delle emissioni, per arrivare ad emissioni nette zero: non per ridurre emissioni, ma per compensarle con CCS, cosicché la somma sarebbe zero.
Assicurano anche che, se a questo si aggiunge lo sviluppo della bioenergia su grande scala, con immense monocoltivazioni di alberi e piante per produrre bioenergia e il sotterramento del carbonio prodotto (chiamato BECCS, bioenergia con CCS), le emissioni saranno negative, con il che potrebbero anche vendere la differenza ad altri.
Un affare molto lucroso perchè coloro che hanno provocato il cambio climatico continuino a emettere gas, con maggiori sussidi pubblici.
David Hone della Shell dichiara apertamente sul suo blog alla COP21 la necessità di raggiungere una meta di 1,5 gradi centigradi per appoggiare lo sviluppo di CCS, CECCS e di altre tecniche di geoingegneria (http://tinyurl.com/nkaqbcv).
Visto che queste tecnologie non funzioneranno ma causeranno un aumento del cambio climatico, tra pochi anni ci proporranno altre tecnologie di bioingegneria ancor più rischiose, come la gestione della radiazione solare. Dobbiamo, fin da ora, smantellare il loro discorso. Non si tratta di ridurre, non si tratta di mete basse, non si tratta di affrontare il cambio climatico.
Non sono false soluzioni. Sono menzogne.

Silvia Ribeiro
“Investigadora” del grupo ETC La Jornada

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From: Posta Resistenze posta@resistenze.org
To:
Sent: Thursday, December 17, 2015 1:15 AM
Subject: SETTIMANA DI 30 ORE IN SVEZIA: UNA PRIMA VALUTAZIONE MOLTO PROMETTENTE

Combinare senza stress, lavoro, vita di famiglia, impegno sociale e tempo libero, è possibile. Lavorando 30 ore alla settimana, come mostra un progetto pilota svedese.
Tutto è cominciato non più di sei mesi fa, quando il personale infermieristico della casa di riposo e di cura Svartedalen a Göteborg è passato alla settimana di 30 ore. Dal febbraio scorso, infermieri e operatori sanitari lavorano 6 ore al giorno e 30 ore alla settimana. La casa di cura contava 64 infermieri a tempo pieno e 16 part time. Ora, tutti sono passati alle 30 ore settimanali.
Questo progetto pilota è stato avviato al fine di poter osservare gli effetti di una vera e propria diminuzione dell’orario di lavoro sulla salute e sulla qualità della vita del personale e anche sulla qualità del lavoro e il benessere dei residenti.
Il progetto è stato elaborato in modo scientifico ed inquadrato come tale. Un gruppo multidisciplinare di specialisti, rappresentanti di datori di lavoro, di sindacati e di membri del personale, segue minuziosamente l’esperienza.
Contemporaneamente a Svartedalen, il gruppo di ricercatori osserva un gruppo professionale simile nella casa di riposo e di cura “Solängen”, dove nulla è stato modificato, per stabilire un raffronto pertinente. Un primo rapporto di valutazione è appena stato pubblicato su quest’esperienza innovativa. E i risultati sono sorprendenti.
A settembre di quest’anno, Janneke Ronse e altri due collaboratori di “Médecine pour le peuple” hanno visitato Svartedalen.
“Molti infermieri erano spesso e/o a lungo malati a causa del sovraccarico di lavoro, spiegava Monica Sörenssen, uno dei responsabili dell’istituzione. Tra noi, si diceva spesso che avremmo dovuto pianificare un po’ più di sport o di relax. Ma molti non avevano il tempo o l’energia. Quando si ritorna dopo 8 ore di lavoro, spesso si è stanchi da non renderlo possibile. Possiamo solo addormentarci sul divano”.
In sei mesi la situazione è cambiata, con grande sorpresa dei ricercatori. Il numero delle assenze per malattia fra i lavoratori a tempo pieno si è abbassato da 6,4 a 5,3 %.
Quest’effetto è inesistente nell’altra casa di riposo e di cura: a Solängen, la cifra è rimasta stabile. Il calo è ancora più evidente se si guarda il numero di assenze per malattia di oltre 15 giorni. A Svartedalen questa cifra è diminuita da 3,23 a 2,68 %. Nell’altra istituzione di cura, il numero delle assenze per malattia a lungo termine, è aumentato.
L’introduzione della settimana di 30 ore ha permesso a tutti gli infermieri part-time di lavorare nella nuova formula a tempo pieno. Oltre a ciò, Svartedalen ha assunto 14 infermieri a tempo pieno.
Il rapporto mostra che la settimana di 30 ore permette una migliore continuità, più regolarità e meno stress sul lavoro.
“Prima, c’erano sei infermieri per 8 ricoverati. Ora sono otto infermieri, ogni ricoverato ha il suo infermiere fisso e ciò migliora la qualità delle cure. Si possono infatti stabilire molte più routine, punti di riferimento, cosa che è importante per gli anziani e ancora più per le persone affette da demenza senile” sottolineava già Monica Sörensson nel giugno scorso.
In sei mesi, la direzione ha pagato 5.750 euro in meno di straordinari, mentre quest’importo è aumentato a Solängen. La stabilità negli orari di lavoro ha permesso la diminuzione di un terzo del numero degli interinali a Svartedalen, mentre è aumentato di un terzo a Solängen.
Prima dell’inizio del progetto pilota, il personale ha risposto a un questionario dettagliato sulla sua salute. Due terzi del personale addetto alle cure ha dichiarato di soffrire di sintomi da stress, problemi di stomaco, insonnia, mal di testa...
Tra gli operatori sanitari part-time questa percentuale era più bassa, cioè il 55%. Il 59% del personale addetto alle cure a tempo pieno ha anche dichiarato di aver avuto problemi fisici. Tra i part time la percentuale era del 51%. Tutte queste cifre si sono abbassate in seguito all’introduzione della giornata lavorativa di 6 ore.
Nel complesso il personale registra oggi un miglioramento della qualità della vita, ma anche più possibilità di prendersi cura di sé. La settimana di 30 ore libera infatti molto più tempo. Per fare sport, essere in migliore forma fisica e sentirsi più felici. O per passare più tempo di qualità con famiglia. Il personale ha più tempo per respirare. Non devono più “recuperare” quando arrivano a casa.
Il comune di Göteborg ha deciso di prolungare l’esperienza almeno fino alla fine del 2016.
L’esempio di Göteborg ispira. Numerose proposte nel mondo associativo e sindacale del paese hanno recentemente rimesso all’onore del dibattito la riduzione collettiva dell’orario di lavoro.
Il personale di Femma, associazione di donne nelle Fiandre, proverà nel 2016 questa nuova organizzazione del lavoro.
E le cose iniziano a muoversi anche da parte del mondo politico. Il ministro regionale di Bruxelles Didier Gosuin, ha appena annunciato che vorrebbe provare la settimana di 4 giorni (32 ore) a Bruxelles-Propreté.
Ciò permetterebbe la creazione di 500 posti di lavoro. Speriamo che non si tratti soltanto di un annuncio a effetto. In ogni caso, la dinamica del dibattito sulla riduzione collettiva dell’orario di lavoro sembra ben rilanciata. Si vedrà.

Benjamin Pestieau, Maartje De Vries

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From: Luigi Di Noia ilfokista@gmail.com
To:
Sent: Friday, December 25, 2015 8:16 PM
Subject: LA CRISI UCCIDE COME IN UNA “NUOVA GUERRA”

MORTALITA’, IMPENNATA MISTERIOSA NEL 2015: “QUEI 45MILA SCOMPARSI COME IN UNA GUERRA”
L’ISTAT: DECESSI AUMENTATI DELL’11%, AI LIVELLI DEGLI ANNI QUARANTA. E GLI ESPERTI SI INTERROGANO: CI AMMALIAMO DI PIÙ O CI CURIAMO PEGGIO?
Come durante la guerra, ma senza la guerra. Come se vivessimo sotto i bombardamenti. Uno studio interroga e preoccupa esperti in mezza Italia: nel 2015 il numero di morti nel nostro Paese è salito dell’11,3%. In un anno significherebbe 67.000 decessi in più rispetto al 2014 (ad agosto sono già 45.000), per un incremento che davvero non si vedeva da decenni.
I dati del bilancio demografico mensile dell’ISTAT raccontano qualcosa di abnorme, che già impegna i demografi e presto, quando saranno note le fasce di età e le cause, darà molto da lavorare anche agli esperti della sanità. Le schede appena pubblicate sul sito dell’Istituto di statistica arrivano fino all’agosto scorso e dicono che nei primi otto mesi sono stati registrati 445.000 decessi, contro i 399.000 nello stesso periodo dell’anno precedente. Si è passati cioè da una media di meno di 50.000 al mese a una di oltre 55.000.
“Il numero è impressionante. Ma ciò che lo rende del tutto anomalo è il fatto che per trovare un’analoga impennata della mortalità, con ordini di grandezza comparabili, si deve tornare indietro sino al 1943 e, prima ancora, occorre risalire agli anni tra il 1915 e il 1918” - scrive sul sito di demografia Neodemos il professor Gian Carlo Blangiardo.
“Certo, si tratta di dati provvisori, ma negli anni scorsi l’ISTAT ha sempre confermato alla fine dell’anno i numeri pubblicati mensilmente. Magari ci saranno correzioni, ma nell’ordine di alcune centinaia di casi. L’unità di grandezza che ci aspetta è quella” - chiarisce il docente.
Nel 2013 e nel 2014, tra l’altro, il numero dei morti era calato, ma sempre di poco: mai si erano raggiunte percentuali in doppia cifra.
Che cosa sta succedendo? Non è ancora chiaro. Anche AGENAS, l’Agenzia Sanitaria delle Regioni, ha deciso di avviare un approfondimento. “Stiamo lavorando per dare una spiegazione a questo fenomeno” - dice il direttore Francesco Bevere.
I ricercatori raccolgono i dati dei decessi negli ospedali, perché in quel modo è più semplice risalire alle cause. Sono già state contattate alcune Regioni, tra le quali l’Emilia Romagna e la Lombardia, che avrebbero confermato tassi di crescita dei decessi in corsia in linea con quelli registrati dall’ISTAT sulla popolazione generale.
Per ora si può lavorare solo sui numeri mensili, ma anche quelli possono essere comunque utili. Intanto, gli incrementi maggiori si sono avuti a gennaio, febbraio e marzo (+6.000, +10.000 e +7.000 morti rispetto all’anno precedente). Si tratta dei mesi più freddi, quelli in cui colpisce l’influenza. Come noto, l’anno scorso la vaccinazione è calata molto a causa di un allarme, poi rivelatosi falso, riguardo ai vaccini.
Difficile però che la malattia stagionale da sola abbia prodotto effetti di quelle dimensioni. La conta dell’Istituto Superiore di Sanità si è fermata a quota 8.000 morti provocati dal problema con la vaccinazione. E la crescita dei decessi non si giustifica neanche con l’invecchiamento della popolazione, che secondo Blangiardo può essere responsabile di un incremento di circa 15.000 morti l’anno. Un altro mese che ha segnato una differenza importante (circa 10.000 casi) è luglio. Ma il caldo quest’anno non è stato particolarmente pesante.
Insomma, il giallo delle morti in Italia non è risolto. E sullo sfondo c’è un timore, sollevato sempre su Neodemos. Che la crisi economica e i tagli al Welfare c’entrino qualcosa. Ci vorranno mesi di studio per capire se davvero tra le cause della “nuova guerra” ci sono anche queste.

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From: Riccardo Antonini erreemmea@libero.it
To:
Sent: Friday, December 25, 2015 8:43 AM
Subject: INCENDIO IN FERROVIA

Ponte a Elsa, Comune di Empoli (Fi).
Martedì 22 dicembre, sulla linea Empoli-Firenze, un treno regionale ha preso fuoco. Per buona sorte, come fortunatamente è avvenuto numerose altre volte, non vi è stata alcuna conseguenza per gli oltre 100 passeggeri pendolari del treno regionale.
A causa dell’incendio, alcuni treni sono stati soppressi, altri hanno subito forti ritardi.
Immediata la reazione del Comitato Pendolari Valdelsa: “E’ il terzo episodio che accade sulla nostra tratta. La verità è che viaggiamo su mezzi molto vecchi...”.
Ogni commento è superfluo.
La realtà è che la politica di abbandono della sicurezza del trasporto ferroviario supera la più nera immaginazione.
Ovviamente, la notizia è stata relegata, anche da parte della stampa regionale, a pagina...esima.

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