lunedì 19 ottobre 2015

19 ottobre - SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! NEWSLETTER N. 230 DEL 19/10/15



NEWSLETTER PER LA TUTELA DELLA SALUTE
E DELLA SICUREZZA DEI LAVORATORI
(a cura di Marco Spezia - sp-mail@libero.it)

INDICE

IL LAVORATORE PUO’ CONOSCERE IL DOCUMENTO DI VALUTAZIONE DEI RISCHI
1
VALUTAZIONE DEI RISCHI: LE DIFFERENZE DI GENERE SONO ANCORA IGNORATE
3
INFORTUNI SUL LAVORO: INDENNIZZABILE IL DANNO DALL’INAIL ANCHE SE DERIVA SOLO DA UNO SFORZO FISICO
5
MORTE SUL LAVORO: I DIRITTI DEGLI EREDI E LE PRESTAZIONI INAIL
6
LA RESPONSABILITA’ DEL DATORE DI LAVORO PER DANNO SUBITO DA TERZI
8
CLASSIFICAZIONE E USO DEI DISPOSITIVI DI PROTEZIONE DELLE VIE RESPIRATORIE
11
DIFFERENZE DI GENERE: I RISCHI DERIVANTI DALL’ORGANIZZAZIONE LAVORATIVA
14
LA CONTINUITA’ NORMATIVA FRA VECCHIE E NUOVE DIPOSIZIONI DI PREVENZIONE
16


IL LAVORATORE PUO’ CONOSCERE IL DOCUMENTO DI VALUTAZIONE DEI RISCHI

Si tratta di una sentenza del TAR un po’ datata, ma ancora attualissima anche a seguito della mutata normativa, che mantiene però gli stessi criteri sulla redazione del documento di valutazione dei rischi.

Da: Kataweb Lex

IL LAVORATORE PUO’ CONOSCERE LA VALUTAZIONE DEI RISCHI
LA LEGGE SULLA TRASPARENZA PREVALE SUL DECRETO SULLA SICUREZZA

Il lavoratore che chiede di avere una copia del documento sulla valutazione dei rischi ha diritto ad ottenerla.
E’ questo il principio affermato dal Tribunale Amministrativo per la Sicilia, con una sentenza depositata il 13 maggio 2003. I giudici amministrativi hanno accolto un ricorso presentato da una docente, che si era vista rifiutare una domanda di accesso agli atti, riguardante la documentazione che viene predisposta dal dirigente scolastico per valutare i rischi, secondo quanto previsto dal Decreto Legislativo n.626 del 1994 [oggi D.Lgs.81/08] sulla sicurezza sul lavoro.
La stessa norma, peraltro, prevede che la pubblicità del documento dei rischi possa essere soddisfatta anche affiggendone all’albo una parte.
Ma il Tribunale Amministrativo ha ritenuto che questa prescrizione non possa annullare gli effetti della legge sulla trasparenza amministrativa, che dispone la facoltà di accedere agli atti amministrativi da parte di tutti i soggetti portatori di interesse giuridico qualificato.
Come, per esempio, il lavoratore in servizio nell’unità produttiva a cui si riferisce il documento.
A seguire riportiamo integralmente la sentenza del TAR.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia, Sezione II, ha pronunziato la seguente Sentenza 799/2003 ai sensi dell’articolo 25 della Legge 241/90 sul ricorso 2640/2002 R.G., sezione II, proposto da G.M.C. rappresentata e difesa dall’avvocato D.C., elettivamente domiciliata presso lo studio dell’avvocato G.L.;
CONTRO
l’Istituto professionale per i servizi alberghieri IPSSARTC in persona del Dirigente Scolastico pro-tempore, rappresentato e difeso come per legge dall’Avvocatura distrettuale dello Stato di Palermo, domiciliataria;
E NEI CONFRONTI
di S.A. in qualità di dirigente scolastico dell’Istituto professionale per i servizi alberghieri IPSSARTC, rappresentata e difesa dall’avvocato A.P. presso il cui studio, in Palermo è elettivamente domiciliata - interveniente;
PER L’ ANNULLAMENTO
del silenzio rifiuto ex articolo 25 della Legge 241/1990 [che dispone la facoltà, per il soggetto che abbia subito il diniego di atti amministrativi, di chiedere l’intervento del difensore civico o di ricorrere al TAR; il ricorso può essere presentato anche senza l’avvocato], formatosi in ordine alla richiesta avanzata dalla ricorrente in data 24/04/02 finalizzata ad ottenere copia integrale del Documento di Valutazione dei Rischi adottato dall’istituto ai sensi della D.Lgs.626/94 [oggi D.Lgs.81/08].
-         Visto il ricorso con i relativi allegati;
-         vista la costituzione in giudizio dell’amministrazione intimata;
-         visto l’atto di intervento proposto da S.A.;
-         vista la memoria prodotta dalla ricorrente;
-         visti gli atti tutti di causa;
-         designato relatore il referendario Luca Morbelli;
-         udito alla camera di consiglio del 16 gennaio 2003 l’Avvocato A.P. per l’interveniente e l’Avvocato dello Stato per l’amministrazione resistente;
-         ritenuto in fatto e considerato in diritto:
PREMESSO
-         che la ricorrente, delegato sindacale GILDA per il personale insegnante dell’Istituto professionale per i servizi alberghieri ha richiesto, con istanza depositata in data 24/04/02, copia integrale del Documento di Valutazione dei Rischi di cui al D.Lgs.626/94 [oggi D.Lgs.81/08];
-         che il predetto istituto non ha provveduto entro i termini previsti a quanto richiesto dalla ricorrente;
-         che quest’ultima con il ricorso proposto ha chiesto l’annullamento del silenzio/rifiuto formatosi ai sensi dell’articolo 25 della Legge 241/90;
-         che nella Camera di consiglio del 16 gennaio 2003 la difesa dell’amministrazione e dell’interveniente hanno chiesto la reiezione del ricorso siccome infondato;
CONSIDERATO
-         che la ricorrente ha rispettato le procedure ed i termini di cui all’articolo 25 della Legge 241/90 e in particolare ha motivato sufficientemente la richiesta con il riferimento alla propria qualità di dipendente dell’istituto;
-         che la stessa ha interesse a conoscere il Documento richiesto in quanto inerente a interessi essenziali della persona quali la tutela preventiva della salute e della sicurezza;
-         che il particolare regime di pubblicità del documento rischi, previsto dagli articoli 19, comma 5 [“Il rappresentante per la sicurezza ha accesso, per l’espletamento della sua funzione, al documento di cui all’articolo 4, commi 2 e 3”] e 4, comma 3 del D.Lgs.626/94 [“Il documento è custodito presso l’azienda ovvero l’unità produttiva”], sostanziandosi nella visione integrale riservata ai soli responsabili dei rischi e nell’affissione all’albo, limitatamente ad alcune parti dello stesso, non esclude la possibilità di una sua conoscenza integrale ai sensi della Legge 241/90, ma costituisce informazione preliminare tale da mettere in condizione i lavoratori interessati di ottenerne la visione integrale o l’estrazione di copia, non sussistendo alcun interesse meritevole di tutela che si contrapponga alla piena estensibilità del documento;
-         che, pertanto, le giustificazioni addotte dal Dirigente dell’istituto in data 05/06/02 non costituiscono motivazione valida per escludere il diritto di accesso;
-         che, conseguentemente, va accolto il ricorso in epigrafe e dichiarato l’obbligo dell’Istituto professionale per i servizi alberghieri di rilasciare i documenti indicati nell’istanza di che trattasi;
-         che sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese e gli onorari di giudizio.
PER QUESTI MOTIVI
Il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, Sezione Seconda, in accoglimento del ricorso indicato in epigrafe, ordina all’Istituto professionale per i servizi alberghieri, in persona del dirigente scolastico pro-tempore, di rilasciare alla ricorrente gli atti dalla stessa richiesti con l’istanza di cui in narrativa, entro trenta giorni dalla comunicazione o dalla notifica a cura di parte della presente sentenza.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa
Così deciso in Palermo, il 16 gennaio 2003 in Camera di consiglio con l’intervento dei signori
magistrati:
-         Calogero Adamo, Presidente;
-         Filippo Giamportone, consigliere;
-         Luca Morbelli, referendario, estensore.


VALUTAZIONE DEI RISCHI: LE DIFFERENZE DI GENERE SONO ANCORA IGNORATE

Da FILCAMS CGIL Lombardia

Nei Documenti di Valutazione dei Rischi la diversità tra uomini e donne non viene considerata, se non per la gravidanza e la maternità. Ma i pericoli non sono neutri, e capirlo migliorerebbe prevenzione e sorveglianza sanitaria.

Le tematiche di genere nella valutazione del rischio entrano nella nostra normativa almeno a partire dal 2001, nel corpus di leggi a tutela della maternità e sui congedi parentali. Sul versante delle norme a tutela della salute e sicurezza, rispetto al precedente Decreto 626 del 1994, il Testo Unico (D.Lgs.81/08) accoglie in modo esplicito dalle Direttive europee la diversità di genere come filtro di analisi del rischio in più parti, spesso inesplorate: all’articolo 28, in particolare, si prevede che la valutazione dei rischi avvenga anche in ottica di genere.

Il rischio come fenomeno completamente neutro, universale e assoluto rispetto ai soggetti interessati, in concreto lavoratrici e lavoratori, dovrebbe essere quindi un concetto superato ormai da qualche anno. Eppure non ne abbiamo alcun ritorno nei Documenti di Valutazione dei Rischi che grazie ai Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS) nei luoghi di lavoro ci troviamo a consultare, analizzare e confrontare con la realtà lavorativa.

Le valutazioni del rischio differenziate per genere (ma potremmo anche parlare di differenze di età o di paese d’origine) vengono per lo più trattate superficialmente dai datori di lavoro e dai Servizi di Prevenzione e Protezione, e soltanto negli aspetti macro, come i rischi durante la gravidanza e la maternità, oppure la sorveglianza sanitaria nel corso dell’allattamento.
Si parla, soprattutto, di interdizioni legate ai rischi chimico e biologico, e poco altro. Vengono sottovalutate, invece, le misure di prevenzione e le valutazioni di genere sia nelle norme tecniche sia nei protocolli sanitari adottati per la sorveglianza sanitaria dai medici competenti, se non per quanto esplicitamente previsto dal Testo Unico (come, ad esempio, per il rischio da movimentazione manuale dei carichi). Spesso mancano addirittura anche queste parti minime di valutazione.

La maggior parte dei medici competenti, che negli ultimi anni hanno introdotto in vari protocolli sanitari i concetti di promozione della salute come valore aggiunto, anche per quanto è esterno al contesto lavorativo, tendono a non prendere in considerazione le varianti di genere in modo esplicito, se non come dato statistico delle persone soggette a sorveglianza sanitaria.
In pratica, è come se la forza lavoro di un’azienda fosse irrimediabilmente neutra, o al massimo con l’unica differenza legata alla possibilità di una parte di rimanere incinta. La composizione dell’organico di un’azienda, invece, dovrebbe essere già un dato importante di pretutela: la conoscenza del contesto lavorativo è la premessa della prevenzione e della protezione. Chi lavora, come e cosa si fa in una certa azienda, sono i dati minimi di realtà da rappresentare in una valutazione dei rischi.

Da anni, nonostante la crisi profonda dell’economia e della rappresentanza, la FILCAMS CGIL Torino si sta occupando di rafforzare il ruolo e le conoscenze dei nostri RLS in settori lavorativi in cui la maggioranza dell’occupazione è femminile, le modalità di lavoro precarie, su committenza e con prevalenza di rapporti part time. Sicuramente, anche a causa della composizione della nostra categoria e dei nostri rappresentati (il 70 per cento dei nostri iscritti sono donne e il bacino potenziale dei nostri settori è rappresentato da una maggioranza assoluta di occupazione femminile), la contrattazione di genere e la lotta alla discriminazione sui luoghi di lavoro sono temi prioritari nella nostra azione quotidiana.
I settori lavorativi della categoria sono molteplici, così come i rischi cui le lavoratrici sono sottoposte: si va dal commercio tradizionale alla grande distribuzione, dal pulimento in contesti complessi come ospedali, laboratori e centri di ricerca, con rischi davvero particolari, alla vigilanza, al terziario avanzato, alle mense, ai servizi di ogni genere per gli studi professionali. Per questa varietà di situazioni di rischio, e per la forte rappresentanza del lavoro femminile nel terziario che possiamo offrire, siamo convinti che il ruolo degli RLS sia fondamentale anche per ottenere una migliore contrattazione e tutela delle condizioni lavorative tout court.

In prospettiva possiamo dire che garantire una tutela sempre più efficace nei luoghi di lavoro sarà centrale e prioritario, se consideriamo che la speranza di vita delle donne è più alta e che l’età pensionabile è stata di molto spostata in avanti.
Anche sul tema della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, la lente di analisi “salute e sicurezza” apre scenari importanti. Come incidono le differenze di genere sul rischio stress lavoro correlato? Davvero i periodi di assenza delle lavoratrici per maternità o malattia dei figli sono ben integrati nell’atmosfera aziendale e nell’organizzazione del lavoro? Il monte ore settimanale (di solito part time rispetto ai colleghi maschi) e l’inquadramento delle lavoratrici non incide in alcun modo nella loro gestione dei tempi di vita e di lavoro?
Eppure le donne infortunate in itinere, secondo gli ultimi dati INAIL disponibili, sono aumentate e sono maggiori rispetto ai lavoratori. Tanti e complessi sono gli spunti di riflessione e analisi possibili, fattibili e che vogliamo iniziare a fare. Il lavoro femminile è un valore aggiunto inestimabile, sia in termini economici per la collettività come punti di PIL che si potrebbero aggiungere, sia in termini di pari opportunità reali e di crescita della nostra società civile.

Il 26 maggio scorso abbiamo tenuto la prima assemblea degli RLS FILCAMS CGIL di Torino, in cui abbiamo provato a coniugare i temi della contrattazione di genere con la prevenzione della salute.
Abbiamo anzitutto confermato che le priorità europee in materia di salute e sicurezza (ossia lo stress lavoro correlato e i rischi psico-sociali, e le malattie osteo-articolari) sono anche le nostre, come testimoniano i nostri dati quotidiani dai luoghi di lavoro e dalle assemblee. Priorità di cui, è bene sottolinearlo, le aziende sembrano non essersi accorte.
Dalla discussione sono emerse buone prassi e suggerimenti, ma soprattutto la volontà di intraprendere iniziative in sinergia con i vari soggetti istituzionali e sociali coinvolti. A partire dalla redazione condivisa di linee guida per la valutazione dei rischi in ottica di genere nel dettaglio e dagli approfondimenti su alcuni settori problematici (grande distribuzione, in primis) per quanto attiene le malattie professionali.

Isabella Liguori
Coordinamento RLS FILCAMS CGIL Torino


INFORTUNI SUL LAVORO: INDENNIZZABILE IL DANNO DALL’INAIL ANCHE SE DERIVA SOLO DA UNO SFORZO FISICO

Da Studio Cataldi
6 ottobre 2015
di Valeria Zeppilli

Infortuni sul lavoro: indennizzabile il danno dall’INAIL anche se deriva solo da uno sforzo fisico.
Per il tribunale di Ivrea, lo sforzo è da considerarsi causa violenta se è diretto a vincere una resistenza peculiare della prestazione lavorativa.
La causa violenta, necessaria affinché un infortunio possa essere indennizzato dall’INAIL con l’indennità giornaliera legislativamente prevista, può ravvisarsi anche in uno sforzo fisico.
Questo almeno è quanto stabilito dal Tribunale di Ivrea con la sentenza n. 61/2014.

I giudici della Sezione Lavoro, infatti, hanno precisato che è ben possibile che se da un atto di forza derivi una lesione, esso possa integrare un’ipotesi di sforzo idoneo a legittimare la corresponsione dell’indennità giornaliera da infortunio.

Nel caso di specie la lesione era derivata al lavoratore dalla necessità di appoggiarsi con la schiena sulla parete di un silos e scuoterla con forza al fine di far defluire, come necessario, del pangrattato che era rimasto bloccato sui bordi.
A causa del dolore persistente, il ricorrente, il giorno successivo, si era trovato costretto ad abbandonare il posto di lavoro per raggiungere, peraltro tramite autoambulanza, il Pronto Soccorso, dove gli veniva diagnosticata una lombalgia acuta da sforzo.

Dinanzi a tale circostanza, e in contrasto con quanto richiesto dall’Istituto (per il quale l’evento dal quale al lavoratore era derivata la lesione non sarebbe in realtà dipeso da causa violenta, ma da malattia comune), i giudici hanno riconosciuto al ricorrente cinquanta giorni di inabilità temporanea assoluta indennizzabili da parte dell’INAIL.

Ciò in considerazione del fatto che, nel caso di specie, il lavoratore aveva compiuto, da solo, un’operazione anormale dal punto di vista ergonomico e rifacendosi alla giurisprudenza della Cassazione, in base alla quale lo sforzo che comporta una lesione integra la fattispecie della causa violenta, anche se non straordinario né eccezionale, purché sia diretto a vincere dinamicamente una resistenza peculiare della prestazione o dell’ambiente di lavoro.

Per approfondimenti:


MORTE SUL LAVORO: I DIRITTI DEGLI EREDI E LE PRESTAZIONI INAIL

Da Studio Cataldi
6 ottobre 2015

di Valeria Zeppilli

MORTE SUL LAVORO: I DIRITTI DEGLI EREDI E LE PRESTAZIONI INAIL
LA RENDITA AI SUPERSTITI E LE VOCI DI DANNO INDENNIZZABILI

Tra le numerose tutele apprestate dall’INAIL rientra anche quella posta a favore dei familiari dei lavoratori che siano deceduti in conseguenza di un infortunio sul lavoro o di una malattia professionale.
A favore di tali soggetti, infatti, al ricorrere di determinati requisiti l’istituto riconosce una rendita che decorre dal giorno successivo a quello in cui si è verificato l’evento nefasto e ha durata differente a seconda dei soggetti ai quali sia rivolta.

I BENEFICIARI DELLA RENDITA AI SUPERSTITI
Più nel dettaglio, tra i familiari del lavoratore deceduto sul lavoro ai quali spetta la rendita vanno ricompresi anzitutto il coniuge superstite e i figli.
Per il primo, la rendita cessa di essere erogata al momento della morte o nel caso in cui contragga un nuovo matrimonio.
Con riferimento ai figli, invece, la rendita spetta a quelli legittimi, naturali, riconosciuti o riconoscibili e adottivi, sino al compimento del diciottesimo anno di età.
Se sono studenti di scuola media superiore o professionale, a carico del defunto e senza un lavoro retribuito, la rendita spetta loro sino ai 21 anni.
Il beneficio, infine, può poi estendersi per tutta la durata del corso di studi e sino a massimo i 26 anni di età se i figli siano studenti universitari, a carico e senza un lavoro retribuito.
Si precisa che, nel caso in cui i figli siano inabili al lavoro, la rendita spetta sino alla cessazione dell’inabilità.
Se, invece, il lavoratore non era sposato e non aveva figli, della rendita possono beneficiare i genitori, purché fossero a suo carico e sino alla loro morte, e i fratelli e le sorelle, anche in questo caso purché a carico del lavoratore defunto e, inoltre, purché conviventi.
A questi ultimi il beneficio spetta sino ai medesimi termini visti per i figli.
In ogni caso, la rendita non spetta ai superstiti dei lavoratori non soggetti alla tutela assicurativa obbligatoria prevista dal Testo Unico 1124/65 e dalla Legge 493/99.

CARATTERISTICHE E AMMONTARE DELLA RENDITA
La rendita offerta dall’INAIL ai superstiti dei lavoratori deceduti in conseguenza di malattia professionale o infortunio sul lavoro è una prestazione economica che ha il vantaggio di non essere soggetta a tassazione IRPEF.
La base di calcolo per determinarne l’ammontare ha subito una variazione a partire dal 1° gennaio 2014. Mentre, infatti, essa era in precedenza identificata nella retribuzione annua effettiva del lavoratore nel rispetto di determinati limiti stabiliti, nel minimo e nel massimo, dal Testo Unico 1124/65, oggi, a seguito della legge di stabilità 2014, essa va individuata nella retribuzione massima convenzionale del settore industria.
Posta questa base di calcolo, l’ammontare della rendita varia a seconda di quale sia il soggetto che ne beneficia.
Nel dettaglio, essa spetta nella misura del 50% al coniuge e nella misura del 20% a ciascun figlio.
Se però i figli siano orfani di entrambi i genitori o siano figli naturali riconosciuti o riconoscibili, la rendita spetta loro nella misura del 40%.
Laddove, invece, in assenza di coniuge o figli, la rendita vada a vantaggio, alle condizioni sopra viste, dei genitori naturali o adottivi o dei fratelli o delle sorelle, essa sarà erogata nella misura del 20%.
In ogni caso, le quote di rendita non possono mai complessivamente superare la base di calcolo presa come riferimento per determinare il loro ammontare.
Pertanto, laddove ciò potenzialmente accada, le quote di rendita spettanti ai familiari vanno adeguatamente riproporzionate.
Ciò posto in via generale, va da ultimo specificato che l’ammontare effettivo delle rendite è rivalutato annualmente sulla base della variazione effettiva dei prezzi al consumo e mediante decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali.

COME CHIEDERE LA RENDITA
In caso di morte a seguito di infortunio sul lavoro, la rendita ai superstiti viene erogata dall’INAIL direttamente a seguito di denuncia dell’evento nefasto da parte del datore di lavoro.
Solo laddove quest’ultimo non vi provveda, saranno gli eredi del lavoratore a dover presentare apposita richiesta, corredata di tutta la documentazione sanitaria idonea ad attestare la causa del decesso.
Nel caso invece in cui il decesso riguardi il lavoratore già titolare di una rendita diretta, la richiesta all’INAIL va presentata direttamente dai superstiti, sempre corredata della documentazione sanitaria necessaria a ricondurre la morte al lavoro.
In ogni caso, è l’INAIL che informa i superstiti del lavoratore della possibilità di richiedere la rendita entro novanta giorni dalla data in cui ricevono tale comunicazione.

LE MODALITÀ DI CORRESPONSIONE
Una volta riconosciuto ai superstiti il diritto a beneficiare della rendita, l’INAIL provvede al relativo pagamento sia attraverso assegni, che attraverso accredito su conto corrente, su libretto di deposito o su carta prepagata dotata di codice IBAN.
Se la quota di rendita non supera i mille euro, il pagamento può avvenire anche in contanti presso gli sportelli postali o bancari.
Nel caso, infine, in cui la rendita venga riscossa all’estero, il pagamento avviene presso gli sportelli convenzionati con l’INPS.

LE VOCI DI DANNO INDENNIZZABILI
Da ultimo occorre segnalare che, laddove la morte sul lavoro sia cagionata da colpa del datore di lavoro, agli eredi del lavoratore spetta sia il risarcimento del danno morale da liquidarsi in via equitativa, tenendo conto delle sofferenze patite e della gravità dell’illecito, sia il risarcimento del danno biologico “iure proprio” conseguente alla lesione dell’integrità psico-fisica subita dagli interessati in ragione della morte del familiare.
Nel caso in cui, tra l’infortunio e la morte, il lavoratore sia rimasto in vita per un apprezzabile lasso di tempo, agli eredi compete inoltre il risarcimento del danno biologico “iure ereditario”.


LA RESPONSABILITA’ DEL DATORE DI LAVORO PER DANNO SUBITO DA TERZI

Da: PuntoSicuro
12 ottobre 2015
Gerardo Porreca

Le norme antinfortunistiche sono dettate a tutela non solo dei lavoratori nell’esercizio della loro attività, ma anche dei terzi che vengono a trovarsi in azienda indipendentemente dall’esistenza di un rapporto di lavoro.

Viene ribadito ancora una volta dalla Corte di Cassazione in questa sentenza quali sono le responsabilità e a carico di chi vanno poste nel caso che in una azienda accada un incidente che vede coinvolto un terzo estraneo.
In tema di prevenzione nei luoghi di lavoro, ha affermato la Suprema Corte, le norme antinfortunistiche sono dettate a tutela non soltanto dei lavoratori nell’esercizio della loro attività, ma anche dei terzi che si trovino nell’ambiente di lavoro, indipendentemente dall’esistenza di un rapporto di dipendenza con il titolare dell’azienda, per cui, ove nella stessa si verifichi un eventuale fatto lesivo a danno del terzo, è configurabile l’ipotesi del fatto commesso con violazione delle norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro, di cui agli articoli 589, comma secondo [omicidio colposo], e 590, comma terzo [lesioni personali colpose] del Codice Penale, sempre che sussista tra la violazione stessa e l’evento dannoso un legame causale e la norma violata mirava a prevenire l’incidente verificatosi.

Nel caso in esame la violazione alle norme di prevenzione degli infortuni è stata quella relativa all’articolo 163 del D.Lgs.81/08 che impone al datore di lavoro, al fine di regolare il traffico all’interno dell’azienda o dell’unità produttiva, il ricorso, se necessario, alla segnaletica prevista dalla legislazione vigente in relazione al traffico stradale e cioè alla prevista cartellonistica indicante l’altezza massima di ingresso dei veicoli all’interno del piazzale dello stabilimento atteso che le misure del mezzo condotto dalla persona offesa, rispetto alla luce del portale di accesso al piazzale, non escludeva l’eventualità di prevedibili rischi di danno che si sono poi puntualmente concretizzati.

Il Tribunale ha condannato il legale rappresentante di una azienda alla pena di nove mesi di reclusione in relazione al reato di lesioni personali colpose commesso, in violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, ai danni dell’autista di un veicolo industriale non dipendente dall’azienda, rimasto infortunato nel mentre si accingeva a entrare nello stabilimento.

All’imputato era stata originariamente contestata la violazione dei tradizionali parametri della colpa generica e delle norme di colpa specifica espressamente richiamate nel capo di imputazione, per non aver predisposto la prevista cartellonistica indicante l’altezza massima di ingresso dei veicoli all’interno del piazzale aziendale, avuto riguardo all’altezza della pensilina in cemento armato ubicata all’ingresso di detto piazzale.
Per effetto di tale omissione, l’autista che si stava recando presso lo stabilimento, nel transitare al di sotto della descritta pensilina alla guida di un autoarticolato di altezza superiore allo spazio esistente, aveva urtato, con l’angolo superiore destro del container posizionato sul semirimorchio, contro il lato esterno della pensilina, causandone la caduta sulla cabina di guida, provocandosi così delle gravissime lesioni.

La Corte di Appello ha successivamente riformata parzialmente la sentenza impugnata riducendo la pena inflitta all’imputato determinandola in quattro mesi di reclusione e confermando, nel resto, la sentenza del primo giudice.

Avverso la sentenza d’Appello il datore di lavoro dell’azienda, a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per Cassazione sulla base di alcune motivazioni.

Con un primo motivo il ricorrente ha censurata la sentenza impugnata per avere la Corte territoriale omesso di rilevare la violazione del principio di necessaria correlazione tra accusa e sentenza, con particolare riguardo alla circostanza relativa al rapporto di dipendenza della persona offesa con la società dell’imputato, nel caso particolare totalmente insussistente, e alla correlativa rilevanza della contestata qualità di datore di lavoro sul piano dell’esatta identificazione della posizione di garanzia.

Con un secondo motivo il ricorrente ha censurata la sentenza impugnata per violazione di legge e vizio di motivazione, avendo la Corte territoriale omesso di rilevare (in contrasto con le risultanze emerse dagli elementi di prova tecnica acquisiti al giudizio) la illegittimità della circolazione del veicolo condotto dalla persona offesa in assenza di apposita autorizzazione amministrativa, trattandosi di mezzo capace di raggiungere l’altezza di ben 4,5 metri, idonea a qualificarlo come “mezzo eccezionale”.

Come terzo motivo, il ricorrente si è lamentato per la violazione di legge in cui sarebbe incorsa la corte territoriale nell’applicare erroneamente il disposto di cui all’articolo 118 del regolamento del Codice della Strada, nella parte in cui impone l’apposizione del segnale di transito vietato ai veicoli aventi altezza complessiva superiore a una certa misura nei soli casi in cui l’altezza ammissibile sulla strada sia inferiore all’altezza dei veicoli definita dall’articolo 61 del Codice stesso, atteso che, nella specie, la luce del portale di ingresso nel piazzale aziendale non era inferiore all’altezza del veicolo condotto dalla persona offesa.

Infine come ultimo motivo il ricorrente ha censurata la Sentenza impugnata per vizio di motivazione, avendo la Corte territoriale trascurato di considerare adeguatamente la circostanza relativa all’esclusività o, quantomeno, alla concorrenza della responsabilità della persona offesa nella causazione del sinistro, con la conseguente adozione degli opportuni provvedimenti sul piano dell’accertamento istruttorio, con particolare riguardo alla gestione del dispositivo di regolazione dell’altezza del mezzo (cosiddetta ralla) o alla condotta di guida tenuta immediatamente dopo l’impatto tra la sommità del cassone e la traversa del portale.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso dell’imputato.
Con riferimento in particolare al principio di corrispondenza tra accusa e sentenza la Sezione IV ha ribadito che del tutto correttamente la Corte territoriale aveva rilevato la sua mancata violazione avendo osservato come il riferimento alla qualità di datore di lavoro dell’imputato fosse chiaramente riferito alla posizione di garanzia in relazione alla sicurezza dei luoghi e degli ambienti di lavoro rivestita dal ricorrente, tanto più che nello stesso sviluppo descrittivo del capo di imputazione era chiaramente indicato che il lavoratore infortunato era dipendente di una ditta per conto della quale si era recato presso lo stabilimento al fine di caricare della merce.

Al riguardo è appena il caso di richiamare, ha precisato la Suprema Corte, il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, al quale ha fatto riferimento anche il Giudice di Appello, ai sensi del quale “in tema di prevenzione nei luoghi di lavoro, le norme antinfortunistiche sono dettate a tutela non soltanto dei lavoratori nell’esercizio della loro attività, ma anche dei terzi che si trovino nell’ambiente di lavoro, indipendentemente dall’esistenza di un rapporto di dipendenza con il titolare dell’impresa, di talché ove in tali luoghi si verifichino eventuali fatti lesivi a danno del terzo, è configurabile l’ipotesi del fatto commesso con violazione delle norme dirette a prevenire gli infortuni sul lavoro, di cui agli articoli 589, comma secondo, e 590, comma terzo, del Codice Penale, sempre che sussista tra siffatta violazione e l’evento dannoso un legame causale e la norma violata miri a prevenire l’incidente verificatosi” per cui è stato pienamente rispettato nel caso in esame il principio di correlazione tra accusa e sentenza di cui all’articolo 521 del Codice di Procedura Penale con la definitiva attestazione della radicale infondatezza del motivo d’impugnazione sollevato sul punto dal ricorrente.

Con riferimento alle restanti lamentele avanzate dal ricorrente la Sezione IV ha fatto osservare come la Corte territoriale, in relazione al punto concernente l’altezza del mezzo condotto dalla persona offesa, richiamandosi agli accertamenti tecnici eseguiti nel corso del giudizio, abbia correttamente escluso, sulla base di una motivazione del tutto congruente sul piano argomentativo e immune da vizi d’indole logica o giuridica, che detto mezzo presentasse caratteristiche tali da giustificarne la qualificazione alla stregua di un “mezzo eccezionale”, atteso che l’altezza complessiva del punto più alto del cassone montato sul semirimorchio, rispetto al suolo, era di 4,3 metri e cioè uguale alla luce netta di passaggio sotto il portale di accesso all’area dell’azienda dell’imputato, con la conseguente esclusione che il veicolo in questione dovesse essere dotato di autorizzazione amministrativa alla circolazione.

La Corte territoriale ha correttamente evidenziato, altresì, secondo la Sezione IV, in relazione agli aspetti di colpa specifica contestati e accertati a carico dell’imputato, “come l’imputato si fosse colpevolmente sottratto al rispetto delle prescrizioni di cui all’articolo 163 del D.Lgs.81/08 la dove lo stesso impone al datore di lavoro, al fine di regolare il traffico all’interno dell’impresa o dell’unità produttiva, il ricorso, se del caso, alla segnaletica prevista dalla legislazione vigente in relazione al traffico stradale (e dunque alla prevista cartellonistica indicante l’altezza massima di ingresso dei veicoli e degli autoarticolati all’interno del piazzale in esame)”, a nulla rilevando il richiamo dell’imputato alla sola specifica situazione richiamata in seno al testo dell’articolo 118 del regolamento del Codice della Strada, attesa l’ampiezza della formulazione della norma cautelare, funzionale alla copertura di tutte le possibili situazioni di rischio, non altrimenti ovviabile che attraverso l’apposizione di idonea cartellonistica e atteso che l’astratta conformità delle misure del mezzo condotto dalla persona offesa, rispetto alla luce del portale di ingresso nel piazzale aziendale, non escludeva l’eventualità di prevedibili rischi di danno nella specie puntualmente concretizzatisi.

Ciò posto, ha così concluso la Corte Suprema, del tutto correttamente la Corte territoriale ha escluso il ricorso della concorrente responsabilità della persona offesa nella causazione del sinistro, essendo quest’ultimo transitato a bassissima velocità in corrispondenza del portale d’ingresso all’area aziendale, non potendosi rendere conto (in assenza di segnalazione di pericolo attraverso apposito cartello) dell’insidia rappresentata dall’altezza della pensilina (perfettamente uguale a quella del container), tanto più che il transito doveva avvenire attraverso il passo carraio di una ditta, dove, per sua conoscenza diretta, venivano usualmente movimentati mezzi pesanti e container.

La Sentenza della Corte di Cassazione Penale Sezione IV n. 31230 del 17 luglio 2015 è visionabile all’indirizzo:


CLASSIFICAZIONE E USO DEI DISPOSITIVI DI PROTEZIONE DELLE VIE RESPIRATORIE

Da: PuntoSicuro
12 ottobre 2015

Informazioni sui Dispositivi di Protezione Individuale (DPI) delle vie respiratorie tratte dal progetto “Impresa Sicura”.
Le tipologie dei DPI, i fattori da valutare per la scelta, le indicazioni sull’utilizzo e la manutenzione dei DPI.

I DPI delle vie respiratorie sono DPI di terza categoria, la categoria che, come indicato dal D.Lgs.475/92, comprende i DPI di progettazione complessa destinati a salvaguardare da rischi di morte o di lesioni gravi e di carattere permanente. E per permettere il loro uso corretto sono obbligatorie l’informazione, la formazione e l’addestramento dei lavoratori.

Per cercare di migliorare la conoscenza di questi importanti DPI riprendiamo ad occuparci del progetto multimediale Impresa Sicura, un progetto elaborato da Regione Marche, Regione Emilia-Romagna e INAIL, che è stato validato dalla Commissione Consultiva Permanente per la salute e la sicurezza come buona prassi nella seduta del 27 novembre 2013.

Nel documento “Impresa Sicura DPI”, correlato al progetto, viene presentata una raccolta dettagliata di informazioni sui DPI e un capitolo di quasi 200 pagine è dedicato ai DPI a protezione delle vie respiratorie che sono chiamati anche APVR (Apparecchi Protezione Vie Respiratorie).
Questi mezzi di protezione delle vie di respirazione, che servono a evitare l’inalazione di sostanze nocive quali aerosol e aeriformi e a fornire ossigeno in quantità sufficiente alla respirazione, devono essere impiegati quando i rischi non possono essere evitati o sufficientemente ridotti da misure tecniche di prevenzione, da mezzi di protezione collettiva quali impianti di aspirazione, metodi o procedimenti di riorganizzazione del lavoro, dopo analisi e valutazione del rischio.

Il documento ricorda che per fare una scelta corretta per la protezione delle vie respiratorie, si devono considerare almeno i seguenti fattori:
-         tipo di sostanza: corretta scelta del tipo di filtro; necessità/opportunità di proteggere altre parti del volto (occhi/viso);
-         concentrazioni: capacità del filtro in relazione al tempo di esposizione;
-         visibilità: riduzione della protezione;
-         libertà movimento: riduzione del peso e del disagio;
-         anatomia del viso: adeguatezza maschera;
-         condizioni ambientali.

Dopo aver riportato le indicazioni del D.Lgs.81/08 sugli ulteriori criteri di sicurezza e prestazionali per la scelta del dispositivo e le norme tecniche sulla protezione delle vie respiratorie, il documento ricorda che i DPI di protezione delle vie respiratorie, a seconda che dipendano o meno dall’atmosfera ambiente, si distinguono in:
-         respiratori isolanti;
-         respiratori a filtro;
-         respiratori a barriera d’aria con filtro.

I respiratori isolanti sono dispositivi di protezione delle vie respiratorie che consentono di respirare indipendentemente dall’atmosfera circostante. Il dispositivo infatti impedisce il contatto con l’atmosfera esterna e fornisce ossigeno o aria da una sorgente autonoma non inquinata. In particolare devono essere utilizzati quando:
-         la percentuale di ossigeno è inferiore al 17%;
-         la concentrazione dei contaminanti è superiore ai limiti di utilizzo dei respiratori a filtro;
-         non si conosce la natura e/o la concentrazione dei contaminanti;
-         in presenza di gas/vapori con scarse proprietà di avvertimento (es.: il contaminante ha soglia olfattiva superiore al valore limite di esposizione professionale).

Inoltre a seconda che la sorgente di aria possa o meno spostarsi insieme all’utilizzatore, i respiratori isolanti si suddividono in:
-         respiratori isolanti autonomi (autorespiratori): possono essere utilizzati ad esempio, nella pulizia, verniciatura e trattamento a pennello/rullo o spruzzo delle parti interne di strutture dimensionalmente consistenti, concave; sono costituiti da maschere intere o semimaschere con erogatori a domanda alimentati con gas respirabile contenuto in un recipiente a pressione (il sistema è dotato di riduttore di pressione per consentire la respirazione) e offrono una maggiore libertà di movimento rispetto ai sistemi isolanti non autonomi, ma essendo sistemi piuttosto complessi richiedono una formazione di livello elevato e una manutenzione rigorosa; sono di autonomia ridotta rispetto ai sistemi isolanti non autonomi e possono essere a circuito aperto (l’aria espirata viene rilasciata all’esterno) oppure a circuito chiuso; particolari respiratori isolanti autonomi sono le attrezzature per uso subacqueo come gli autorespiratori per uso subacqueo a circuito chiuso e gli autorespiratori per uso subacqueo a circuito aperto ad aria compressa, mentre gli scafandri per sommozzatori sono dei particolari respiratori isolanti non autonomi;
-         respiratori isolanti non autonomi: sono riforniti di aria respirabile esterna all’ambiente di lavorazione (solitamente si tratta di aria compressa in linea) e hanno lo svantaggio della ridotta libertà di movimento, ma sono di autonomia superiore agli autorespiratori; pertanto sono indicati per le attività che implicano la stazione fissa e lunghe durate.
Oltre agli autorespiratori per l’esecuzione normale delle lavorazioni, vi sono anche autorespiratori per la fuga (di autonomia ridotta), ovviamente per l’uso in situazioni di emergenza.

Veniamo ai respiratori a filtro che sono dispositivi di protezione delle vie respiratorie nei quali l’aria inspirata passa attraverso un materiale filtrante (filtri) in grado di trattenere gli agenti inquinanti. I filtri si classificano in base al tipo, alla classe e al livello di protezione.
In particolare i respiratori a filtro possono essere:
-         non assistiti (l’aria passa all’interno del facciale solo mediante l’azione dei polmoni);
-         a ventilazione assistita (l’aria passa all’interno del facciale costituito da una maschera mediante un elettroventilatore normalmente trasportato dallo stesso utilizzatore; questi dispositivi forniscono una certa protezione anche a motore spento);
-         a ventilazione forzata (l’aria passa all’interno del facciale costituito da un cappuccio o da un elmetto mediante un elettroventilatore normalmente trasportato dallo stesso utilizzatore; questi dispositivi non sono concepiti per fornire protezione anche a motore spento).
Chiaramente laddove si utilizzino respiratori a filtro a ventilazione forzata o assistita dovrà essere prestata particolare attenzione alla manutenzione dei motori e delle batterie.

Inoltre i respiratori a filtro sono classificati in base al tipo di inquinante dal quale i lavoratori devono essere protetti:
-         respiratori con filtri antipolvere: sono costituiti da materiale filtrante di varia natura in grado di trattenere le particelle di diametro variabile, in funzione della porosità; i filtri antipolvere (da montare su maschere o semimaschere) e i respiratori con filtro antipolvere (facciali filtranti, elettrorespiratori con cappuccio, elettrorespiratori con maschera) sono suddivisi in tre classi in base alla diversa efficienza di filtrazione;
-         respiratori con filtri antigas che proteggono da gas e vapori: i filtri antigas hanno filtri a carbone attivo che, per assorbimento fisico o chimico, trattengono l’inquinante; non vengono suddivisi in base all’efficienza filtrante (che deve essere sempre del 100%), ma sono classificati in base alla capacità intesa come durata a parità di altre condizioni e in base al tipo di inquinante dal quale proteggere i lavoratori;
-         respiratori con filtri combinati che proteggono da aerosol e aeriformi: i filtri combinati trattengono oltre ai gas anche particelle in sospensione solide e/o liquide; la combinazione deve essere realizzata in modo che l’aria di inspirazione attraversi prima il filtro antipolvere;
-         respiratori a barriera d’aria con filtri.

I respiratori a barriera d’aria con filtro sono, infine, DPI delle vie respiratorie che consentono di eseguire un lavaggio delle prime vie aeree mediante una visiera, ancorata alla parte superiore del capo, che copre tutto il volto, e un flusso di aria laminare che viene fatto scorrere sul lato interno di essa, a pressione, dall’alto verso il basso. La visiera non aderisce alla faccia e fa defluire l’aria immessa in modo naturale. Non si ha quindi isolamento dall’ambiente circostante, ma una diluizione dell’inquinante presente a livello del naso e della bocca dell’utilizzatore. L’aria compressa viene filtrata e successivamente regolata in base alle esigenze operative: la compressione avviene mediante collegamento di questo dispositivo a un impianto di compressione locale, mentre vengono utilizzate cartucce in carbone attivo, alloggiate nella cintura dell’operatore, per la decontaminazione dell’aria.
Inoltre la presenza della visiera permette non solo la protezione da inalazione di agenti tossici, ma anche il riparo del viso e in particolar modo degli occhi da schizzi e contatti accidentali.
Questa tipologia di DPI ha il vantaggio di essere di peso e ingombro limitato e andrebbe utilizzato, in sostituzione alla più classica mascherina filtrante, quando l’atmosfera circostante contiene elevate concentrazioni di inquinanti pericolosi per la salute, soprattutto se si opera in spazi di lavoro confinati o se, per la conformazione/dimensione del manufatto, l’aspirazione localizzata non è sufficientemente efficace. Rientrano in questa categoria gli apparecchi respiratori con maschera per saldatura amovibile.

Concludiamo dando, infine, qualche indicazione sull’utilizzo e la manutenzione degli APVR.
Innanzitutto è necessario verificare la tenuta del respiratore prima di entrare nell’area di lavoro, ricordando che la presenza di basette lunghe oppure di barba, baffi o una rasatura non curata, può pregiudicare la tenuta sul viso del respiratore. E non bisogna mai dimenticare che i respiratori vanno indossati e/o tolti in atmosfera non inquinata.
Inoltre dopo ogni utilizzo, la semimaschera, la maschera pieno facciale o l’elettrorespiratore utilizzati con regolarità devono essere puliti e disinfettati, poiché eventuali residui di saliva o di traspirazione possono solidificarsi sulle valvole, impedendone il corretto funzionamento.
L’integrità del respiratore va sempre controllata, anche nel caso di maschere tenute a disposizione per i casi di emergenza. E nelle istruzioni per l’uso è sempre indicato se il respiratore necessita di manutenzione (sostituzione periodica delle valvole e delle parti usurabili) e come questa deve essere effettuata.

Riportiamo, infine, ulteriori indicazioni sulla manutenzione di questi DPI:
-         la presenza di fori, abrasioni può modificare il grado di protezione del respiratore;
-         la maschera deve essere disinfettata prima dell’uso da parte di altro utilizzatore;
-         i facciali filtranti hanno una perdita di tenuta nel tempo, di cui bisogna tener conto;
-         le norme tecniche prevedono, in generale, che il facciale sia sostituito ad ogni turno di lavoro, e qualora il facciale abbia bordo di tenuta, al massimo dopo tre turni lavorativi: bisogna, in ogni caso, considerare le risultanze della valutazione del rischio, quindi la natura del contaminante e la sua concentrazione;
-         la durata del filtro dipende da una serie di fattori diversi, quali concentrazione e natura del contaminante, temperatura, umidità, nonché capacità polmonare e ritmo respiratorio dell’utilizzatore: la durata del filtro non è pertanto definibile a priori;
-         in generale il filtro antipolvere è da sostituire quando aumenta la resistenza di respirazione (inalazione) e il filtro antigas è da sostituire quando il carbone attivo ha esaurito la sua capacita di assorbimento, cioè quando l’utilizzatore avverte il sapore o l’odore della sostanza.

DIFFERENZE DI GENERE: I RISCHI DERIVANTI DALL’ORGANIZZAZIONE LAVORATIVA

Da: PuntoSicuro
15 ottobre 2015
        
Informazioni sulle differenze di genere nella risposta alle infezioni, nelle conseguenze dei rischi da fattori inerenti l’organizzazione del lavoro e nell’esposizione a rischi ergonomici e a patologie muscolo scheletriche lavoro-correlate.

Molti documenti in questi ultimi anni, in Italia e in Europa, hanno sottolineato come uomini e donne, lavoratori e lavoratrici, tendano ad essere colpiti dalle patologie professionali in maniera diversa. E se l’uomo e la donna hanno peculiari caratteristiche che possono determinare effetti biologicamente diversi anche a parità di esposizione, di queste differenze (a partire dalla valutazione dei rischi) non si può non tener conto nelle strategie e nelle misure di prevenzione aziendali.

Per favorire l’adozione nei luoghi di lavoro di meccanismi, processi e azioni per contrastare le disuguaglianze di genere nella tutela della salute e sicurezza sul lavoro, torniamo a sfogliare un documento INAIL “Salute e sicurezza sul lavoro, una questione anche di genere. Rischi lavorativi. Un approccio multidisciplinare” che segue la pubblicazione di altri tre volumi INAIL sul tema delle differenze correlate all’appartenenza al genere maschile o femminile.

Nel documento in relazione alla differente esposizione tra uomini e donne in relazione a rischi chimici e biologici e ai rischi di natura infortunistica, vengono presentati anche esempi specifici relativi alle differenze di sesso nella risposta alle infezioni.

Ad esempio le recenti acquisizioni in tema di Sindrome da Immunodeficienza Acquisita (AIDS) mostrano con chiarezza come una differenza di genere possa associarsi a peculiarità di decorso clinico. Infatti le donne hanno patterns clinici e viro-immunologici più favorevoli nella fase precoce dell’infezione, sebbene mostrino in un secondo tempo, con più alta probabilità, una veloce progressione verso l’AIDS conclamato rispetto agli uomini, a parità di carica virale. E altre differenze significative di genere si possono notare per le infezioni da HBV (epatite B) e HCV (epatite C).

Vi sono poi anche fattori di natura fisica nell’attività lavorativa che possono essere pericolosi per entrambi i sessi (radiazioni ionizzanti per le cellule germinali) e altri soprattutto per i lavoratori maschi (agenti fisici quali le alte temperature) o soprattutto per le lavoratrici o per il feto.

In relazione poi ai rischi da fattori inerenti l’organizzazione del lavoro, il documento segnala che un lavoro faticoso e stressante può alterare il ciclo mestruale provocando, amenorrea, dismenorrea, cicli anovulatori e riduzione della fertilità. Il lavoro a turni, caratteristico del settore sanitario e di alcuni altri servizi (ad esempio assistenti di volo), può interferire con il sistema endocrino-riproduttivo delle donne, causando alterazioni del ciclo mestruale, endometriosi, oltre che altre patologie quali disturbi dell’umore e malattie cardiovascolari.
Ed è stata evidenziata anche una correlazione tra lavoro notturno e aumentato rischio di tumore al seno femminile, senza dimenticare che la stessa Agenzia Europea per la Ricerca sul Cancro (IARC) ha classificato il lavoro a turni in gruppo 2A, vale a dire probabilmente cancerogeno.

Si sottolinea che il rischio attribuibile al lavoro notturno aumenta significativamente quando effettuato per periodi duraturi di diversi anni (soprattutto periodi superiori a 20 anni), con oltre due notti consecutive durante il turno. Il lavoro a turni notturni sembra essere associato anche a un incremento del rischio per cancro prostatico, del colon e dell’endometrio anche se gli studi finora condotti per valutare queste associazioni sono relativamente pochi.

Ci soffermiamo poi sul rischio ergonomico, ricordando come uomini e donne abbiano mediamente una diversa struttura fisica.
Quando una postazione lavorativa non è in grado di adattarsi alla estrema variabilità della forza lavoro in termini di struttura fisica, viene a incrementarsi il rischio di patologie muscolo-scheletriche e in questo senso la componente femminile è in genere maggiormente penalizzata dovendosi adattare a postazioni o strumenti di lavoro, spesso progettati per il “lavoratore maschio medio”.

Se le patologie muscolo scheletriche lavoro-correlate sono condizioni multifattoriali dove la componente causale occupazionale è attribuibile a diversi fattori di volta in volta implicati da soli o in associazione (vibrazioni trasmesse da strumenti e macchinari, microclima inadeguato, movimentazione manuale dei carichi, movimenti ripetitivi, posture incongrue, ecc.), molti fattori concausali extraprofessionali sono pressoché di prerogativa femminile, in alcuni casi perché legati alla fisiologia della sfera riproduttiva femminile (ad esempio la multiparità e la menopausa) e in altri per il ruolo sociale che la donna occupa nelle attività di assistenza e cura familiare. E una quota significativa di stress biomeccanico alle strutture muscolo-scheletriche deriva proprio dalle attività di pulizia domestiche o di accudimento di bambini o anziani malati e con difficoltà di movimento e di deambulazione.

Inoltre uno studio sui tassi di Sindrome del Tunnel Carpale ha mostrato una netta prevalenza nei cosiddetti “colletti blu” rispetto ai “colletti bianchi” e ha evidenziato anche un alto tasso tra le casalinghe, suggerendo che i lavori domestici siano un importante fattore di rischio per la Sindrome del Tunnel Carpale.
E altri studi hanno evidenziato una maggiore prevalenza nel genere femminile di patologie a carico della colonna vertebrale e delle articolazioni (in particolare la sindrome del tunnel carpale ed epicondilite laterale) degli arti superiori, di patologie delle vene degli arti inferiori al pari dell’attività lavorativa svolta.

Sempre in relazione ai rischi ergonomici e per favorire nelle aziende una valutazione del rischio in ottica di genere, concludiamo segnalando che durante lo stato di gravidanza nelle lavoratrici si ha una maggior prevalenza di tendiniti e disturbi muscoloscheletrici per ritenzione idrica e aumento ponderale con conseguente ridistribuzione e alterazione della postura e per il particolare assetto ormonale.

Il documento di INAIL “Salute e sicurezza sul lavoro, una questione anche di genere. Rischi lavorativi. Un approccio multidisciplinare” è scaricabile all’indirizzo:


LA CONTINUITA’ NORMATIVA FRA VECCHIE E NUOVE DIPOSIZIONI DI PREVENZIONE

Da: PuntoSicuro
19 ottobre 2015
Di Gerardo Porreca

Ribadita, con riferimento ai rischi legati all’uso delle attrezzature di lavoro, la sussistenza di una continuità normativa fra vecchie disposizioni in materia di sicurezza di cui al D.P.R.547/55 e quelle nuove di cui al D.Lgs.81/08.

E’ un principio quello che emerge dalla lettura di questa sentenza della Corte di Cassazione penale che è stato più volte espresso in passato dalla suprema Corte ma che appare comunque del tutto attuale considerato che all’esame della suprema Corte vengono ancora sottoposti dei casi di contravvenzione ancora alle vecchie disposizioni di cui al D.P.R.547/55, contenente le norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro, abrogato ormai da più di otto anni dal D.Lgs.81/08 entrato in vigore il 15/05/08.

Non c’è soluzione di continuità, ha affermato la Corte di Cassazione, tra la regolamentazione entrata in vigore con il Testo Unico in materia di salute e di sicurezza sul lavoro di cui al D.Lgs.81/08 e la precedente normativa regolante la materia della prevenzione degli infortuni sul lavoro di cui al D.P.R.547/55. Riguardando il caso sottoposto alla Corte suprema una contravvenzione relativa all’esercizio di un ascensore non c’è dubbio, ha aggiungo in particolare la stessa Corte, che la norma abrogata posta a tutela del rischio legato all’uso di ascensori e montacarichi nei luoghi di lavoro (articolo 198 del D.P.R.547/55), sia stata sostituita senza soluzione di continuità dalla disciplina di cui al citato Testo Unico del 2008, conclusione del resto questa unanime nella giurisprudenza di legittimità.

Il Tribunale ha condannato il titolare di un supermercato alla pena sospesa di due mesi di reclusione, nonché al risarcimento del danno in favore della parte civile per il reato di lesioni personali colpose gravi ai danni di una lavoratrice dipendente che, mentre si accingeva ad utilizzare il montacarichi aziendale, è precipitata nella “tromba” dello stesso, procurandosi trauma cranico commotivo, trattato chirurgicamente, esitato in postumi permanenti severi, lesioni della milza, trattate chirurgicamente con l’asportazione della stessa e lussazione al terzo dito della mano sinistra.
All’imputato, in particolare, si rimproverava sia la colpa generica, che quella specifica per avere violato l’articolo 198 del D.P.R.547/55. La Corte di Appello ha successivamente confermate le decisioni del Tribunale per cui il titolare del supermercato ha proposto ricorso per Cassazione corredato da alcuni motivi di censura.

Con un primo motivo il ricorrente ha sostenuto che la violazione di legge contestata (articolo 198 del D.P.R.547/55) al momento del fatto non era più previsto dalla legge come reato in quanto le richiamate norme erano state abrogate dal D.Lgs.81/08 e che non sussisteva continuità normativa fra esse in quanto non poteva ragionevolmente affermarsi che le disposizioni di cui agli articoli dal 69 al 71 del predetto Decreto avessero preso il posto di quelle abrogate.
Come altra motivazione l’imputato ha escluso che nell’istruttoria fosse stato provato che il fatto fosse stato compiuto alla luce del principio del ragionevole dubbio. L’unico addebito allo stesso mosso dal principale teste d’accusa, cioè dall’ispettore dell’organo di vigilanza, ha sostenuto ancora l’imputato, è stato costituito dall’ipotizzata violazione dell’articolo 198 da tempo abrogato come sopra detto. L’ ascensore inoltre, secondo lo stesso, era munito di tutte le autorizzazioni del caso e aveva superato tutti i controlli previsti dalla legge e in più i lavoratori dipendenti escussi avevano confermato che le porte non si aprivano se l’ascensore non era al piano.

Il ricorso è stato rigettato dalla Corte di Cassazione la quale ha ribadito che, pur a non volere considerare, per ragioni di comodità argomentativa, la contestata e ben sussistente colpa generica, non sussiste, così come correttamente evidenziato nei due gradi di merito, l’affermata soluzione di continuità tra la regolamentazione entrata in vigore con il Testo Unico approvato con il D.Lgs.81/08 e la normativa che regolava, al momento dell’accaduto, la materia della prevenzione degli infortuni sul lavoro.
Da un esame infatti del contenuto del corpo normativo approvato nel 2008 è apparso chiaro, secondo la Sezione IV, che le situazioni di rischio derivanti dall’uso delle attrezzature di lavoro risultano essere state individuate omnicomprensivamente, privilegiando il profilo funzionale e individuando, appunto, la generale categoria di rischio che il garante della sicurezza è tenuto a prevenire mediante l’approntamento dei necessari presidi e delle necessarie cautele (articoli da 69 a 71). “Pertanto, non par dubbio” - ha proseguito la Suprema Corte - “che la norma, ora abrogata, posta a tutela del rischio da uso di ascensori e montacarichi nei luoghi di lavoro (articolo 198 del D.P.R.547/55), sia stata sostituita (in quanto la fattispecie rientra fra quelle ridefinite, in relazione alla categoria del rischio), senza soluzione di continuità, dalla disciplina di cui al citato Testo Unico del 2008 (trattasi di una conclusione univoca nella giurisprudenza di legittimità)”.

Anche l’osservazione fatta in merito al principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio non è stata condivisa dalla Sezione IV. Secondo la stessa, infatti, la Corte di Appello aveva chiarito come, escluso con certezza che fosse stata la vittima a forzare le porte del montacarichi, lo stesso, a motivo dell’assenza di un meccanismo di blocco o di un suo malfunzionamento o, eventualmente, dell’esistenza di un meccanismo di protezione non a norma, ebbe a presentare le porte aperte sebbene la cabina non fosse presente al piano. La certificazione di conformità, peraltro, era risultata risalente nel tempo e l’inadeguatezza del sistema confermata dalla decisone dello stesso imputato il quale, dopo l’infortunio, ha provveduto a sostituire l’intero impianto.

Tenuto conto, infine, che il lavoratore deve fidarsi della sicurezza degli strumenti e degli impianti di lavoro, ad assicurare la quale il datore di lavoro è chiamato a garanzia, è apparso del tutto evidente, secondo la Corte di Cassazione, che ove l’imputato avesse tenuto la condotta che gli era imposta dal ruolo (assidua e costante verifica del puntuale funzionamento dei presidi di sicurezza in specifica relazione all’impianto del montacarichi) il grave infortunio non si sarebbe verificato.

La Sentenza n.34706 del 10 agosto 2015 della Corte di Cassazione Penale Sezione IV è visionabile all’indirizzo:



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