lunedì 13 gennaio 2014

Settimana nazionale 15-22

 Mercoledì, 08 Gennaio 2014 17:11
   Paolo Di Vetta* - Luca Fagiano*
   -

Per riappropriarci del nostro presente e del nostro futuro. Rompere le
compatibilità, bloccare tutto

"Da questa difficile situazione economica si riemerge soltanto se si
prosegue sulla retta via dei sacrifici, dei tagli alla spesa pubblica, delle
privatizzazioni e della vendita del patrimonio pubblico, della
valorizzazione dei territori e dei beni comuni, della cancellazione di
quelli che un tempo, dentro e fuori dal lavoro, venivano  ideologicamente
definiti diritti, ma in realtà rappresentano soltanto putride sacche di
privilegio, inutili ingessature che frenano, insieme alla burocrazia e alle
tasse, il dispiegarsi dell'iniziativa privata, l'unica in grado di generare
ricchezza e soprattutto impediscono alle nuove generazioni, di realizzarsi
nel lavoro e quindi nella vita. Dalla crisi si esce, in ultima istanza, solo
lavorando congiuntamente per accrescere la produttività delle imprese,
rafforzandone la capacità di competere nel grande mercato globale". Questo è
ciò che affermano le azioni del governo Letta, fedelmente obbedienti ai
diktat della Troika.

E' pazzesco vedere come la crisi venga utilizzata come micidiale arma per l'affermazione
totale e totalitaria del modello capitalistico, dell'ideologia assoluta del
libero mercato e della competizione, di un dominio sempre più verticale ed
arrogante, di vecchi e nuovi potenti sulle nostre esistenze.  Ma la cosa più
allucinante e tragicomica, è vedere pezzo dopo pezzo gli eredi della
cosiddetta "sinistra partitica e sindacale", continuare ad essere un
soprammobile di casa PD e soprattutto sottomettersi alle leggi della crisi e
quindi del dominio capitalistico, del mercato e della precarietà. Persino
personaggi come Landini, che fino a qualche tempo fa pontificavano di unità,
alternativa, buona e sana occupazione, sono pronti ora a saltare sul carro
del vincitore, a scendere a patti con Matteo Renzi, il nuovo messia della
politica dei partiti, sceso in terra per ricostruire consenso attorno al
saccheggio ed alla devastazione delle nostre risorse e della nostra umanità.



In particolare, oggi, sedersi al tavolo di coloro i quali dicono di cercare
una via italiana e/o europea per l'uscita dalla crisi, vuol dire assumere le
sembianze (e la sostanza) del nemico. La crisi è strumento di affermazione
prepotente del modello capitalistico nella sua veste neoliberista e quindi
più aggressiva. Il problema non è l'uscita del paese dalla crisi, ma
scorgere i tratti della loro crisi, insinuarsi nelle sue crepe, spingere, se
ne avremo la forza,  fino a far cadere il castello. Non è semplice, per chi
è abituato a relazionarsi con chi soffre e fatica dalla privilegiata
angolatura del ceto politico, comprendere la distanza che esiste fra il
paese reale ed il palazzo, anche perché il palazzo esiste anche fuori da
quelle mura; esiste per esempio nelle logore ricette di chi ripropone la
solita cantilena della difesa di diritti (meglio se santificati nella
costituzione), che nella realtà non esistono più da tempo e nei piccoli
privilegi di bottega e di apparato.

La questione, oggi, non è certamente riconducibile ad una presa del potere,
ne di converso nel trovare dentro i suoi meccanismi uno scranno anche per
noi. Il problema che abbiamo di fronte, non è quello di uscire dalla crisi,
ma di mettere in crisi. Di indebolire e sabotare la macchina del dominio e
dell'accumulazione per riconquistare nel conflitto lo spazio e la
possibilità dell'alternativa. In questo due aspetti sono centrali: quello
della ricomposizione sociale e quello della riappropriazione.

Ciò che abbiamo toccato con mano nel percorso del 19O è stata la
potenzialità connessa al legame fra le lotte, all'incontro fra diverse
figure sociali colpite dall'austerità e dal capitale. Le piazze di San
Giovanni e Porta Pia, la Roma meticcia del 18 Dicembre che ha ridicolizzato
il tentativo di spostare la protesta sul terreno del nazionalismo, del
razzismo e delle divisioni che ne conseguono.

Ma non sono le uniche divisioni che vanno rifiutate. Vanno rispedite al
mittente anche tutte le divisioni generazionali, categoriali, la stessa
separazione fra il piano dei bisogni da quello della politica. La strada non
è certamente quella di guardare al lavoratore come una "entità astratta" che
ci permetta di identificare, per semplificazione, più chiaramente l'attore
protagonista in grado di incarnare il nostro desiderio e bisogno di lotta di
classe e di cui diventare bravi tifosi. La strada non è neppure quella della
sommatoria delle lotte, ma quella del riconoscimento dentro la dimensione di
territori che divengono spazi di conflitto reale, di sviluppo di una
autorganizzazione in grado di rappresentare non l'idea dell'isola felice -
ma uno spazio dove la sperimentazione di nuove relazioni e legami sociali
possa divenire, senza sosta, spina nel fianco in grado di ingaggiare la
prova del contropotere. Ricomporre, quindi, dentro un riconoscimento che è
sociale e politico al tempo stesso, una rinnovata capacità collettiva di
misurarsi con la sfida della produzione di un immaginario politico comune
attraverso il quale amplificare ed allargare lo scontro: coinvolgendo  l'eccedenza
che abbiamo raccolto nelle mobilitazioni di Ottobre e giungendo oltre essa.
Alimentare, quindi, un processo in divenire nel quale possa trovare respiro
una capacità complessiva di mettere in discussione questo presente di
sfruttamento e miseria.

In questo senso è centrale, forse più di ogni altra cosa, fare i conti con
il nodo delle pratiche. Quali sono, infatti le pratiche in grado di dare
sostanza a questi ragionamenti?

Una prima generica risposta è certamente questa: innanzitutto quelle
pratiche in grado di liberare tempo e vita. Pratiche in grado di sottrarre
pezzo dopo pezzo le nostre esistenze al ricatto del lavoro e quindi anche
alla miseria della disoccupazione (lavoratori inutilizzati) ed alle catene
della riproduzione. Pratiche in grado di sostanziare il diritto (che esiste
come tutti i diritti solo se riconquistati), ad una vita piena e vera, non
come lavoratori utilizzati o inutilizzati, ma come esseri umani subordinati
e soggiogati da questo sistema che determinano il loro percorso collettivo
di liberazione. Pratiche, quindi, in grado di indicare la rotta dell'autonomia
collettiva delle nostre esistenze dalla produzione e dalle maglie del
capitale. Occupare le case. Non pagare le bollette, le multe, le mense
scolastiche ed universitarie, il trasporto pubblico, i ticket sanitari.
Riprendersi le merci necessarie rispetto agli attuali bisogni. Queste (ed
altre) sono le pratiche di cui oggi, dentro nuove avventure di
sperimentazione sociale, dobbiamo riscoprire nella loro sostenibilità, in un
processo crescente e cosciente di illegalità diffusa e di massa. Diventa
centrale dunque, oggi più che mai, sviscerare, anche in contrapposizione al
Job Act in gestazione, l'idea del "Reddito Garantito" non solo come
richiesta vertenziale da sottoporre al governo, ma come parola d'ordine
autonoma e ricompositiva da praticare concretamente e direttamente.

Ci chiediamo, però , allo stesso tempo, se non sia utile e necessario anche
tornare ad immaginare e a mettere in campo forme di blocco generalizzato
della produzione. Molto si è dibattuto attorno al cosiddetto "movimento dei
forconi". Non ci cimentiamo in questa sede ad analizzare questo complesso
spaccato. Ma la forma di lotta (da questi qualche volta praticata veramente,
in molte altre in maniera solo "formale"), pensiamo che possa essere anch'essa
ricompositiva ed efficace. Del resto molto spesso negli ambiti di movimento
si sono evocati termini come "sciopero generalizzato" o "sciopero
metropolitano". Troppo spesso, tranne qualche parziale eccezione, si è
usciti dalla semplice allusione. Ci chiediamo se, al di là delle diverse
denominazioni ed accezioni, non sia arrivato il momento di provare a
praticare sul serio un blocco generalizzato dei flussi produttivi, di tutto
ciò che le diverse figure sociali possono riuscire a bloccare ed apertamente
a sabotare.

Fra il 15 ed il 22 Gennaio prossimi, come reti dell'abitare abbiamo indetto
una nuova settimana di lotta. Il 20 Gennaio prossimo è anche convocata la
manifestazione nazionale del trasporto pubblico locale, dentro questa
pesante aria di  attacco ai beni comuni ed ulteriori privatizzazioni. Mentre
ci prepariamo a tornare alla fine di Gennaio a pretendere la chiusura di
Ponte Galeria, di tutti i CIE e CARA  insieme alla cancellazione della
Bossi - Fini; mentre ci prepariamo per i primi di Febbraio ad una nuova
assemblea nazionale verso la mobilitazione contro il vertice europeo sulla
disoccupazione giovanile, perché non trasformare il 20 Gennaio in una
giornata di blocco generalizzato delle strade e della produzione, di
iniziativa diffusa e coordinata in ogni città ed in ogni territorio?

E' importante certamente accrescere gli spazi di analisi e di confronto. Ma
questi spazi possono essere produttivi, siamo convinti, solo se rimangono
permanentemente agganciati al terreno della sperimentazione.

La suggestione di un 20 Gennaio di blocchi generalizzati delle strade e dei
flussi produttivi in tutto il paese, indubbiamente è forte. La proposta è
sul tappeto.

* Abitare nella crisi

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